Drammatico

AMERICAN BEAUTY

Titolo OriginaleAmerican Beauty
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1999
Durata121'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Un uomo qualunque di mezza età, con un matrimonio in crisi, rimane perdutamente affascinato da un’amica della figlia. Sarà questa la molla che lo porterà a mettere in discussione tutta la sua vita dal rapporto con la moglie al proprio lavoro; percorso obbligato per rinascere e riscoprirsi uomo.

RECENSIONI

Ci sono film che, pur trattando temi importanti e attuali, passano sugli schermi come meteore, con poca considerazione di critica e pubblico. Penso al crudele "Happiness", che attacca con provocatorio cinismo l'apparente quiete in cui si rintana infelicemente la famiglia borghese, o al sottovalutato "Tempesta di ghiaccio", che affronta la disgregazione della famiglia e l'incomunicabilita' nei primi anni settanta in America. Altri film, invece, giungono sugli schermi dopo mesi di discussioni su giornali e televisioni, che contribuiscono a creare l'evento e ad attirare il pubblico nelle sale. E' il caso di "American Beauty", opera prima di Sam Mendes che dovrebbe essere il ritratto al vetriolo della societa' americana. Dico dovrebbe, perche', se e' vero che "Non tutto e' come sembra", e' anche vero che "Non tutto e' necessariamente diverso da come appare", come ormai impone uno stereotipo che vede dietro a ogni sorriso, non dico un velo di malinconia, ma una vera e propria fontana di lacrime. Quindi non e' detto che chi ostenta atteggiamenti machi sia per forza un omosessuale latente, che chi si vanta delle proprie acrobazie sessuali sia in realta' vergine o che la crisi di una coppia intorno alla quarantina derivi principalmente dal fatto che lei e' in carriera e non gliela da' piu'. Oppure, potrebbe essere, ma e' l'ipotesi piu' prevedibile e meno sottile. Certo e' che l'idea che la felicita' sia data da una bella casa in cui si entra con un sorriso a trentadue denti e un vestito griffato, ha illuso e illude tuttora intere generazioni. Permane il dubbio che dietro la porta di casa il sorriso potrebbe smorzarsi, il vestito ingrigirsi e la casa creparsi, ma guardando a cio' che rincorriamo nelle nostre scelte, sembra restare solo un dubbio. Il film ha il pregio di insinuare una presa di coscienza nello spettatore, di smuovere un po' le acque, anche se, in fondo, non racconta nulla di nuovo. A parte la raffinatezza di certe scelte visive e un Kevin Spacey che conferma il suo carisma di attore, le psicologie teatrali dei personaggi, l'inverosimiglianza di alcune situazioni e l'escalation drammatica ad effetto rendono lo spettatore partecipe di uno spettacolo a tratti coinvolgente ma forse un po' superficiale.

Crudo e crudele, anche perché, sornione, invita all'ottimismo, alla bellezza della Vita, dopo aver lasciato sul suo cammino uno stuolo di cadaveri (viventi e non). L'esordio di Sam Mendes e Alan Ball (rispettivamente regista e sceneggiatore, con una serie di successi teatrali alle spalle) è una tragicommedia più pessimista che burlesca, una satira antiborghese con ferocia degna di Bunuel. Ma non dona la catarsi della farsa surreale e si prende gioco del processo d'identificazione dello spettatore con i personaggi positivi: non ve ne sono. Neanche quelli meno fasulli, che (infatti) recitano le medesime frasi, come il tipo di un ottimo Kevin Spacey, che non è l'eroe della ribellione al Sistema, bensì un patetico allupato alla ricerca della sua Lolita, oppure lo spacciatore/voyeur con telecamera alla Sesso, Bugie e Videotape che, con la sua fidanzata, è tanto sensibile al proprio "sentire" quanto insensibile al dolore altrui, è portatore d'odio (verso le convenzioni) e di psicosi inquietanti (amore sincero e morboso). L’immagine figurata dei petali rossi richiama sia il desiderio sia la purezza: per scuotersi dal torpore c'è chi assapora il potere (denaro, successo, armi) e chi cerca la giovinezza perduta (il protagonista). Le famiglie sono fatte a pezzi: padri autoritari o immaturi che non possono essere un modello per dei figli che li detestano, madri catatoniche (vinte dal proprio vissuto) o carrieriste frustrate (tutta forma e poca sostanza), figure fanatiche colme di pregiudizi (il colonnello che odia gli omosessuali). La bellezza della vita sta nella presa di coscienza in punto di morte, quando l'Io narrante, defunto, può osservare il suo Viale del Tramonto. Mirabile gioco di incroci: lui riprende lei (Thora Birch) alla finestra, lei s’esibisce, lui cerca l’altra che, sapendolo, gli sorride allo specchio.

I detrattori diranno che l’espediente narrativo del flashback “dall’aldilà” non è per niente nuovo e che l’hanno già visto, ad esempio, in “viale del tramonto” o in “monsieur verdoux”; poi storceranno il naso di fronte all’ennesima condanna dell’american dream, anch’essa un po’ “ritrita”; quindi si lamenteranno del fatto che i personaggi non vanno oltre lo stereotipo e che nessuno di essi risulta credibile; prossimo bersaglio saranno, probabilmente, i colpi di scena della serie: “la realtà non è quella che sembra”, che bolleranno come telefonati e dunque poco incisivi; regia e fotografia saranno definite buone ma anonime, prive di una vera personalità, anche se tutti ammetteranno che le sequenze oniriche sono molto ben fatte ed efficaci; gli attori saranno forse gli unici ad essere salvati, con una (sacrosanta) lode incondizionata a Kevin Spacey e qualche (legittima) riserva sulla Bening che in effetti sfocia un po’ nel caricaturale; infine si prenderanno gioco della sequenza del sacchetto che danza nel vento, liquidandola come un penoso tentativo di creare un momento di profondità e poesia. I detrattori hanno (quasi) tutte le ragioni del mondo ed è difficile controbattere razionalmente alle loro critiche…se però alla fine della proiezione avevate, come me, gli occhi lucidi, la bocca spalancata e la parola “capolavoro” che vi ronzava nella testa, beh, potete per una volta rinunciare all’obiettività critica e godervi un gran bel film in santa pace. Se la vecchia cattiva Hollywood è ancora capace di QUESTO, allora lunga vita a Hollywood.