TRAMA
Il paramedico Frank Pierce percorre con l’ambulanza le strade allucinate di un quartiere malfamato di New York, alla disperata ricerca di salvare qualcuno dalla morte e se stesso dalla disperazione.
RECENSIONI
Cristo è tornato: a New York
Attraverso gli occhi del paramedico Frank Pierce, Scorsese ci mostra la New York nera, sporca, torbida della periferia, una Grande Mela bacata, popolata di morti viventi, come la mente di Frank è abitata dai fantasmi delle persone che non è riuscito a salvare, tutti "incarnati" dal volto di Rose, una ragazza morta per un suo errore, che come una visione gli appare periodicamente lungo i marciapiedi sudici di Hell's Kitchen confusa tra le prostitute. Frank è ossessionato dall'idea di salvare i moribondi, questa è l'unica droga in grado di portarlo da uno stato costante di depressione alla "sensazione di sentirsi Dio". Insomma ancora una volta sono il "senso di colpa" e la "ricerca della salvezza" i temi cardine dell'autore Scorsese, con la differenza che stavolta toccano vertici di parossismo mai visti prima nel regista italo-americano. E se "Taxi Driver" è il film che più di ogni altro viene in mente per la comunanza di elementi narrativi, quello più affine per tematiche e per partecipazione dolorosa è senz'altro l'"Ultima Tentazione di Cristo", poiché Frank Pierce sceglie come Gesù la via del sacrificio (implosiva) e non quella della nemesi (esplosiva) attuata da Travis Bickle. E come nell'"Ultima Tentazione" sarà una "morte" (anche qui c'è la stessa lacerante incertezza tra la scelta della vita e quella della morte) e non il salvataggio, come il protagonista credeva inizialmente, a liberare catarticamente dall'angoscia il protagonista (e, ci vogliamo scommettere, Scorsese si attirerà nuovamente le ire del Cattolicesimo ortodosso...). Certo, questa liberazione avrà un sapore molto amaro: la consapevolezza che non tutti vogliono essere salvati, che non vale la pena vivere in sofferenza in un inferno chiamato New York, che si può scegliere la propria morte, come ci martellava Celine nella sua "Morte a Credito". La pellicola si chiude con Cage-Frank tra le braccia di P.Arquette-Mary Burke raffigurati proprio come una delle innumerevoli "Pietà" della tradizione pittorica italiana (toh! ancora Gesù...) .
Intorno al tema centrale si rincorrono innumerevoli altri temi, forse troppi, dovuto al taglio dei dialoghi di stampo tarantiniano, pregni quindi di "sentenzialismo" e di battute secche, quasi parlate addosso; e se ciò da una parte è pienamente giustificato dal nero-grottesco di certe situazioni, dall'altra fa sentire un po' di nostalgia di quella meravigliosa naturalezza dei dialoghi cui eravamo abituati. Indubbiamente certe frasi rimangono impresse e sarebbero necessarie più visioni per assimilare il campionario di concetti e aforismi sparsi per tutto il film, magari sovrabbondanti ma comunque perfettamente inseriti in una trama narrativa che passa miracolosomente dal tono drammatico a quello farsesco-grottesco, venato di un umorismo nero talvolta macabro ma efficacissimo. Abbiamo detto del parossismo che deborda da una New York in coma irreversibile, tra la vita e la morte. E parossistica è la rappresentazione visiva che Scorsese ne dà arrivando a toccare, come mai prima, una sorta di apoteosi del visionario: tutte le possibilità offerte da una macchina da presa vengono sfruttate nel modo più straripante: carrelli vorticosi in avanti, all'indietro, circolari, inquadrature sghembe, dall'alto, dal basso, rallenty alla Peckinpah alternati ad accelerazioni vorticose come il Wong-Kar-Wai di Happy Together. Scorsese spinge il trio fedele (Richardson, Ferretti e una Schoonmaker da Oscar) dove non si era mai spinto; difficilmente potremo dimenticare certe sequenze: le luci delle insegne dei negozi newyorkesi e quelle dei fari delle macchine che percorrono la strada in senso inverso a quello dell'ambulanza impazzita, producono effetti stroboscopici deliranti riflettendosi sui vetri del mezzo di soccorso e rinfrangendosi deformando i volti angosciati dei paramedici; case come buchi neri, dove c'è un'entrata ma non necessariamente un'uscita, dalle infinite scale "escheriane" e dagli appartamenti accecanti, distorti, barocchi, come solo Gillian ci aveva finora mostrato; bugigattoli melmosi che si aprono improvvisamente in mezzo a strade deserte come usciti dalla mente di Carpenter, l'atrio abbagliante di neon del Pronto Soccorso, dove un Cerbero nero con gli occhiali neri, seleziona le anime dannate che lottano nella calca per poter entrare e salvarsi nell'"altro" inferno, quello "controllabile perché tra quattro mura". Visioni eccessive da diventare quasi insostenibili per lo spettatore, in particolar modo nei momenti in cui la rappresentazione diventa praticamente una soggettiva del protagonista sotto effetto di allucinogeni (e dove, a ben vedere, c'è l'unico flash-back di tutta la pellicola); visioni talvolta debordanti ed esagerate, come lo scoppio dei fuochi d'artificio nel momento dell'a-catartico salvataggio dello spacciatore infilzato nella ringhiera di un balcone, dove il regista rischia di invischiarsi in un manierismo un po' autocompiaciuto che non gli è proprio.
Mentre si può discutere sugli eccessi o meno di alcune sue scelte stilistiche, il "citazionismo" di Scorsese è innegabilmente fine, fascinoso, un'autentica delizia per i cinefili: in questo articolo si è fatto per inciso già un fior di elenco, ma potremmo aggiungere una lista interminabile di riferimenti cinematografici e non solo: gli zombie di Romero, il disorientamento nel giudicare i vivi e i morti, vittime o colpevoli, umani e disumani (punto centrale dell'ultimo Spike Lee ma che trae la sua origine dal "Mostro di Dusseldorf" langhiano e passa per "Blade Runner"), "Strange Days" per il tentativo di fuga in una realtà "altra". Solo su questo punto di potrebbe fare un trattato a partire dalla beat generation per arrivare ad eXistenZ . E chi non ha pensato, sentendo chiamare una droga "La Morte Rossa", alla "Mascherata" omonima di E.A.Poe dispensatrice anch'essa di morte? Cristo dispensatore di morte, ma in realtà di salvezza e liberazione, ha la faccia monoespressiva di Nicolas Cage mai così in parte con il suo volto disperato-allucinato e la sua andatura caracollante in linea con il tono desolato della voce off dell'"io narrante" (marchio di fabbrica del regista), mentre Patricia Arquette fornisce un'interpretazione troppo ambiguamente lynchiana, troppo dark-lady, cosicché alla fine si rimane spiazzati quando si scopre che non c'è niente "dietro", che è una vittima come gli altri, anche se darà la spinta per il processo catartico di Frank Pierce. Eccellenti le interpretazioni dei tre colleghi di Pierce (Goodman, Rhames, Sizemore) che si gli si affiancano periodicamente nelle sue corse notturne. Colonna sonora straordinaria nel contrappuntare i ciclici spostamenti dei paramedici nell'ambulanza in giro per l'inferno, con R.E.M., Clash, UB40, ma soprattutto con la favolosa T.B.Sheets di Van Morrison. Insomma non sarà il più perfetto, ma "Al di là della Vita" è il più impressonante film mai realizzato da Scorsese (insieme all'Ultima Tentazione di Cristo, anch'esso imperfetto), di un pessimismo cosmico immane, un ritratto insieme lucido e allucinante dell'irreversibile decadenza della specie umana, la cui condanna è vivere, la cui salvezza è morire.
L'Ultima Tentazione di Frank
Scorsese. Peccato non rimi con cinema. Dopo la dipartita del Gigante Stanley qualcuno si scandalizzerebbe se definissi Marty il più grande regista vivente? Spero di no. Eppure…purtroppo c’è un “eppure”… eppure il suo nuovo film “bringing out the dead” lascia un po’ perplessi, storditi, dubbiosi. Torna lo sceneggiatore Schrader, torna una New York notturna, iperrealista e disperata, torna un protagonista allucinato e incapace di relazionarsi a un microcosmo-città che è, volente o nolente, il suo mondo ma che non riesce a sentire suo. D’obbligo, dunque, è il riferimento a “Taxi driver”; Cage, come De Niro, vaga per le “mean streets” della grande mela a stretto contatto col degrado, il dolore e la sofferenza ma, a differenza del taxi driver Travis, il paramedico Frank ha un compito più doloroso e troppo spesso ingrato: salvare vite o fare i conti con le ossessioni dell’anima. E’ un compito più grande di lui, è una missione che diventa una condanna terribile, lancinante ma che non riesce, quasi fosse una “vocazione”, ad abbandonare. Non sa, non può, non deve né desensibilizzarsi e ignorare la Colpa (come sembrano riuscire a fare i suoi colleghi), né cedere a “l’ultima tentazione” e, sic et simpliciter, rinunciare. Che fare allora? Il mondo è perduto e nessun agnello di Dio riuscirà a redimerlo dai suoi peccati, resta solo la compassione, la Pietà, non importa se non riuscirà a salvare le anime che invocano il suo aiuto, basterà essere lì nell’ora della fine e avere pietà di loro, traghettarle dolcemente nel mondo dei morti o addirittura “ucciderle”, se è questo che vogliono. La soluzione è cioè una non-soluzione, una disperata ammissione di inadeguatezza che si chiude sull’immagine di una pietà michelangiolesca (Nicolas Cage tra le braccia di Patricia Arquette) investita da una luce che non può non essere divina. Indubbia è la forza visiva del film, la maestria con cui Scorsese ci trascina nell’universo allucinato e allucinante di Frank con accelerazioni, giochi di luce a arditissimi movimenti di macchina (bella la scena dell’ambulanza che l’inclinazione progressiva della macchina da presa conduce in cielo); memorabili alcune sequenze (il delirante trip di Frank e la quasi-citazione di “Manhattan” con lo spacciatore infilzato che guarda New York tra fuochi d’artificio “ossidrici”)…eppure. Si torna all’eppure dell’inizio. Eppure l’impressione è che non tutto vada per il verso giusto, che qualcosa sfugga al controllo di Scorsese e che il film proceda per accumulo di episodi slegati l’uno dall’altro, con una progressione più casuale che causale che rende la visione spesso faticosa e incapace di prendere, di “catturare” come dovrebbe e come meriterebbe. Bello, dunque, ma forse non bellissimo.
Un'ombra greve sulla New York dei primi anni '70
L'inizio e' molto intenso, con l'arrivo di un'ambulanza in un quartiere povero di New York, di quelli che non figurano sulle carte geografiche per turisti persi in un quadrilatero luccicante di colori e vertigini. In una casa fatiscente una famiglia e' in ansia per la sorte del padre, riverso in stato di incoscienza sul letto. Nicholas Cage appare come un angelo per dare speranza, offrire una via d'uscita e i suoi modi sono un frullato di determinazione e pacatezza. Ma e' pur sempre un uomo, con le sue debolezze e i suoi turbamenti, che un lavoro quasi infernale non aiuta a mitigare. Dopo, il film, nonostante altri momenti di poesia e lucida disperazione, si assesta nella visione deformata della realta' da parte del protagonista, soffermandosi sull'ennesimo trauma da rimuovere, visivamente piu' che ingombrante, che impedisce una riconciliazione con se' stessi. E si dilunga nella ripetitivita' degli eventi, nel vagare notturno dell'ambulanza in una New York illuminata con luci contrastate che la rendono paradiso e inferno, nell'incontro con anime perse e vite che scivolano via senza che nessuno se ne accorga. Ma il taglio surreale e grottesco imprigiona le emozioni dello spettatore e appesantisce la visione rendendola quasi estenuante, con personaggi di contorno sempre sopra le righe e un Nicholas Cage dall'aria sempre piu' derelitta che in qualche modo gli calza a pennello, ma lo intrappola in un cliche' recitativo in cui lo abbiamo gia' visto. Forse piu' bello nel ricordo che nell'immediatezza della visione, con alcuni momenti che restano sospesi nella memoria (penso allo spacciatore infilzato da una grata sospeso sulla metropoli scoppiettante di fuochi d'artificio), coperti da altri che allargano il distacco emotivo e appesantiscono il film rendendolo interminabile.
Fra desolazione e umorismo paradossale
Martin Scorsese ritrova le Mean Streets newyorchesi e un protagonista afflitto dal degrado, dalla violenza e dalla sofferenza urbana come in Taxi Driver (lo sceneggiatore è lo stesso: Paul Schrader), ma accentua troppo l'amata componente di redenzione/peccato cattolica, filtrando il tutto con il tema della compassione affrontato in Kundun. Si parla di Paradiso, Inferno, Salvazione con tanto di tentazione del Diavolo (il volto rassicurante del gestore dell'"Oasi" che vende droga). Il nuovo Travis di Nicolas Cage (modellato sulle memorie di un ex-paramedico, Joe Connelly) ha un aspetto catatonico-etilico da Via da Las Vegas, con Io narrante riflette sul dolore perché non vuole assuefarsi cinicamente ad una coscienza popolata di fantasmi e rimorsi. La pellicola, monocorde nelle continue apparizioni spettrali e leggermente impotente nel suo (non) percorso catartico, sorprende nelle sue impennate "schizofreniche" (anche alla Koyaanisqatsi) che si specchiano in una città apocalittica sprofondata nella notte e in una fascia di paramedici ai limiti della psicosi paranoica (debordante il personaggio interpretato da Tom Sizemore). Nel rischioso connubio fra desolazione e umorismo paradossale (la gag del licenziamento, quella della resurrezione nella discoteca popolata da dark), approda con coraggio al musical (l'allucinazione post-pillola di Cage che, quando parla con il morto, sfiora il delirio kitsch). Le buone premesse e le pagine intense s’afflosciano nel finale poco potente, stimolante, significativo: ma l’opera è certamente più riuscita di Codice 3: Emergenza Assoluta, commedia nera in ambulanza dai differenti registri di Peter Yates. Tanta musica rock anni sessanta, un posto d’onore per i Clash, ed un pronto soccorso alla “E.R. - medici in prima linea”.