Sala, Storico

AGORA

Titolo OriginaleAgora
NazioneSpagna
Anno Produzione2009
Genere
Durata127'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Alessandria, 391 d.C.: i cristiani provocano i cittadini politeisti, che reagiscono nella violenza e vengono travolti da una ferocia che non risparmia la biblioteca, luogo sacro per la filosofa Ipazia, dedita alla comprensione delle orbite celesti.

RECENSIONI

Opera ambiziosa, tesa ad abbracciare, in un microcosmo, duemila anni di fanatismi religiosi. Mentre si spiegano dinamiche di violenza sempre uguali a se stesse, Amenábar, con l’ausilio degli effetti digitali, si libra con sorprendenti plongée sul formicaio, per andare ad abitare quel Cielo che, con passione, Ipazia tenta di svelare. Da sempre ossessionato dalle colpe della Chiesa, il regista ci ricorda che il fondamentalismo intollerante è stato indossato anche dai protocristiani, con straniere milizie (di camicie) nere di monaci (i Parabolani). Mentre rende manifesto il fascino che poteva avere una religione rivolta (anche) a reietti, affamati e schiavi, attraverso la figura di Ipazia è tutto teso a celebrare il ruolo della Scienza nella scoperta della Verità: l’Oscurantismo delle religioni ha sempre ritardato l’evoluzione umana. Segue, cioè, uno schema rigido, “forzando” (anche) la Storia (preziosa invece la ricostruzione scenografica e d’usi-e-costumi) per assurgere a discorso universale: ogni “atto” rappresentato scandisce il movimento nei secoli della Confessione che reprime prima le altre, poi i dissenzienti fra gli omologati, infine le donne (streghe), mentre mira alla conquista del potere temporale. Un “modello” che non ha sapori faziosi e artificiosi perché lavora anche di pancia (ben assecondato dalle musiche di Dario Marianelli), di sineddoche (appassionando nei drammi umani), lontano sia da intellettualismi che da spettacolarizzazioni spicciole (ricorda, in questo, il serial “Roma”). L’insistita scena dell’orda che invade la Biblioteca, cancellando l’ultimo baluardo della saggezza umana è, ad esempio, agghiacciante; la figura ambivalente dello schiavo di Ipazia, diviso fra riscatto e amore, getta un ponte fra le posizioni; poi c’è il magnifico parallelo fra le scoperte di Ipazia e il senso dell’umano agire, che procede a ellissi, non con la purezza di un cerchio (a causa, forse, dei tagli fatti dopo la presentazione a Cannes). La protagonista, in un mondo maschilista che s’affida ai preconcetti, diventa l’unico profeta di Dio nel rispetto del suo Creato, vivendo di dubbi e non di una fede che appiattisce tutto, Terra compresa.

Come l'orbita della Terra, così il film di Amenabar ruota attorno a 2 fuochi, la filosofa Ipazia e lo schiavo Davo, con una traiettoria che segue le regole di un teorema: schiavitù e libertà non sono stati sociali ma dell'anima, due antitetici modi di affrontare l'esistenza. E la Tesis di Amenabar, che si compone attraverso l'analisi delle azioni/reazioni dei due personaggi, si palesa limpida e trasparente in una doppia sequenza: Davo e Ipazia di spalle a contemplare l'infinità del cielo. E laddove lo schiavo supplica passivamente l'intervento di un essere superiore a soddisfare i suoi desideri, la scienziata interagisce attivamente con la volta celeste, la studia per carpirne i segreti, la sfida. Davo è schiavo dentro, della sua passione per la padrona innanzitutto (e chissà se proprio in quanto padrona), la sua incapacità si dichiararsi non è frutto della sua condizione ma della sua impotenza. E il passaggio dalla parte dei parabolani, non è dettato da un desiderio di libertà ma è solo un tentativo di riscattare la propria frustrazione, delegando ad altri (il Dio cristiano e i suoi seguaci) ciò che non riesce a realizzare da solo. Davo non si libera, cambia semplicemente padrone, un padrone che lo arma con un coltello.
E il coltello sarà l'elemento centrale della scena più emblematica del film, il primo corpo a corpo dei due protagonisti: Davo si avventa su Ipazia per averla, forte della sua arma. Ma poi china il capo, si genuflette, getta a terra il coltello. Ipazia gli slaccia il colletto da schiavo, sa che non è più il suo schiavo. Sembra una fotografia di Tina Modotti l'inquadratura del colletto sopra il pugnale, è un simbolo di rara portata sovversiva, immagine che da sola innalza la pellicola di Amenabar al di sopra di ogni schematismo e didascalismo cui lo obbliga il genere. Chi ha un'arma è uno schiavo, un esecutore di ordini, lo saranno i soldati con i fucili qualche secolo più tardi, gli aviatori che lanciano le bombe nei tempi contemporanei. E ieri come oggi a chi comanda non servono le armi, ma l'arte della manipolazione delle menti (tema che non verrà affrontato in questa sede).
Il secondo corpo a corpo non è altro che un corollario. Ipazia ha raggiunto lo scopo della sua esistenza (l'aveva promesso ad Oreste: "potrei anche smettere di vivere dopo aver scoperto le leggi che governano il cosmo") ed è libera di andare a morire pur di non sottostare a regole irrazionali (la scelta del protagonista di Mare Dentro è analoga, a guardar bene). Davo ha aperto gli occhi, ma può riscattarsi solo parzialmente, concedendo all'amata scienziata il massimo che il suo essere schiavo gli permette, una morte indolore; finalmente avrà il suo corpo, per un attimo.
Il Sole, fonte di luce e di vita, è un fuoco dell'ellisse intorno al quale ruota la Terra, l'altro è un punto oscuro immateriale. In alcuni momenti del ciclo di rivoluzione la Terra è più vicina al Sole, in altri al centro "buio".