
TRAMA
Anni ’60. Un giovane inglese, Jude, parte per l’America alla ricerca del padre emigrato tanti anni prima e mai conosciuto. Una volta negli Stati Uniti s’innamora di una ragazza, Lucy, il cui fratello, Max, viene richiamato alle armi e arruolato per andare a combattere in Vietnam. Intorno ai tre giovani si raduna un gruppo di persone e musicisti che condivide il fervore culturale e artistico di quegli anni. Coinvolta politicamente lei, proletario e disincantato lui, la coppia si divide, ma l’arruolamento di Max fa precipitare presto la situazione…
RECENSIONI
Spiazzante. È questo l'aggettivo con cui si entra nella caleidoscopica atmosfera della creazione artistica di Julie Taymor (chiamarlo semplicemente film sarebbe riduttivo), in cui 33 canzoni dei Beatles diventano non solo colonna sonora, ma parte integrante della narrazione. Narrazione che si sviluppa seguendo una storia d'amore dai contrasti rodati (lei bionda lui moro, lei americana lui inglese, lei borghese lui proletario) collocati nella più archetipica delle location: la New York ricca di stimoli e fermenti degli anni '60, con la controcultura hippy del Greenwich Village in primo piano. Già visto? Per restare al genere musicale, Hair è subito nell'aria, le tinte pastello dell'inizio rimandano a Grease, la spersonalizzazione dell'ambiente militare ricorda Pink Floyd - The Wall, il "melting pot" occhieggia a Rent, la miscellanea di stili rievoca il più freddo Moulin Rouge, ma tutto viene frullato per realizzare un'idea forte e geniale: dare una nuova dimensione a canzoni entrate nell'immaginario collettivo. La Taymor non si accontenta quindi di citare il passato, ma lo rielabora attraverso una personale visione. A volte discutibile, prossima al kitsch (i soldati giganti e in mutande che trasportano la Statua della Libertà calpestando un Vietnam in miniatura), in certi momenti persino superficiale, ma assolutamente trascinante e coinvolgente. Gli arrangiamenti spaziano dal gospel al rock, dal blues al pop e gli esiti, pur non evitando qualche stridore, riescono il più delle volte a stupire. Divertente "I want you" intonato da uno Zio Sam digitale a caccia di soldati da spedire in Vietnam, particolarmente intenso il parallelismo tra fragole sanguinanti e caduti sul campo di battaglia per "Strawberry Fields Forever", commoventi il gospel di "Let it be" e il finale ottimista di "All you need is love". Ma ciò che più colpisce è proprio la leggerezza con cui la Taymor, aiutata nelle scelte musicali dal marito Elliott Goldenthal e nelle ottime coreografie da Daniel Ezralow, osa sfidare il mito, accontentando sia i nostalgici che chi non rientra nelle schiere dei fan del quartetto di Liverpool. Il piacere che ne deriva è sicuramente figlio della potenza di musiche immortali, ma la Taymor ha il merito di avere trovato un disequilibrio di magica e comunicativa armonia in cui la psichedelia, il videoclip, il teatro surreale, il musical, la pittura, i personaggi simbolo dell'epoca (Janis Joplin e Jimi Hendrix), i divertiti e divertenti camei di Joe Cocker, Bono Vox e Salma Hayek, scivolano nei sensi per nutrirli di colori ed emozioni. Ad alcuni potranno pesare i frequenti e un po' ovvi rimandi all'attualità (il Vietnam come l'Iraq, gli errori che si ripetono, la necessità di prendere una posizione), ma anche il prevedibile messaggio pacifista di amore universale arriva senza pesare più di tanto. Si dirà che senza l'apporto musicale le dinamiche messe in scena si limiterebbero a ricalcare stereotipi e luoghi comuni, il che è forse vero, ma il film ha una sua ragione d'essere proprio nella non comune capacità di raccontare con levità, e in modo visionario e fantasioso, la più classica delle storie. Non un film sui Beatles, quindi, ma un'opera che reinventa i Beatles e la loro poetica musicale adattandola al presente senza dimenticare il passato. Diventerà sicuramente un cult.

Diciamolo: l'idea di costruire un film sulle canzoni dei Beatles non era affatto da buttare, anzi, sulla carta era un'operazione stimolante per più versi ed è per questo che Across the universe risulta essere la classica occasione sprecata. Il problema non sta né nelle forzature cui vengono sottoposte le canzoni (poiché fa parte del gioco costringerle nello schema tramico e stravolgerne il senso letterale, se necessario - Strawberry fields forever per tutte -: questa sfida è il film, in ultima analisi) né nelle derive clippare cui, comodamente, la Taymor, si abbandona (è accettabile anche questo, non poniamo limiti alle scappatoie). Il problema risiede in quello che appare sullo schermo, come e perché. Il problema è la Taymor, regista visionaria wannabe che amerebbe rinverdire una tradizione di cinema arty e kitsch ma che (al suo massimo, si badi bene) arriva allo status di decoratrice pacchiana. Il problema è insomma nella mancanza di idee e nella clamorosa banalità delle soluzioni adottate per il pastiche spastico in oggetto: non basta dunque squadernare una teoria di citazioni, giochino per i maniaci degli scarafaggi (mi sono baloccato) e dunque, a casaccio: i ragazzi di Liverpool che ballano al Cavern (Hold me tight in montaggio alternato sul party americano); il nome dei personaggi (quasi tutti): (Hey) Jude, Lucy (in the sky), (Dear) Prudence , (Sexy) Sadie, Max(well), JoJo (Get back) (Lovely) Rita, Molly e Desmond (Obladi Oblada), Martha (my dear), (Bungalow) Bill, Daniel (Rocky Raccoon), Dr Robert, Mr. Kite o Julia (mi sfugge qualcuno sicuramente); i testi delle canzoni che rimbalzano nei dialoghi (ho visto la versione doppiata), nelle situazioni, nelle scenografie: siamo d'accordo, tutto questo deve esserci obbligatoriamente e ovviamente, ma, perdiana, anche in certe direzioni coatte esiste modo e modo di procedere; così, banalmente, e solo per ossequiare il catalogo, Prudence entra in scena dalla finestra del bagno e lo si dice (She came in through the bedroom window dal medley finale di Abbey road); Max va di mazza da golf (Maxwell's silver hammer!) senza un vero perché e, ovviamente, fa casini a scuola; si fa viaggiare tutti sul magical bus del mystery tour; si dipinge una mela verde (la Apple records); si fa suonare la band sul tetto di un edificio (la performance dei Fab di Get back) e ancora e ancora; non basta arraffare a piene mani da un patrimonio comune di musiche, parole, avvenimenti, mitizzazioni, non basta mettere su un veloce Baedeker sui Beatles e la beatlesmania per iniziati e neofiti (e l'errore è anche questo: non decidere se solleticare i primi o istruire i secondi, con il risultato ibrido e indeciso che ne consegue): la storia è soltanto uno schema nudo nel quale costringere una trentina di canzoni dei Beatles e un mucchio di informazioni, ritagli e frammenti di vite ed eventi? Perfetto. Peccato che questo, che doveva essere il punto di partenza del lavoro, risulti di fatto risolverlo. Across the universe, dal punto di vista della costruzione, dunque, appare (poiché è) un puzzle scoordinato e sempre palesemente pretestuoso, in cui non si fa nessuno sforzo per legare i diversi momenti in modo convincente (Prudence, personaggio insensato se ne dobbiamo nominare uno, che si rinchiude in uno stanzino perché la si possa invitare 'a venir fuori a giocare'!) essendo più importante ficcarci quanti più ammiccamenti è possibile e avendo, in più, la presunzione di coniugare storia Grande e piccola in un affresco mid-cult rozzo e scollato dal patrimonio ispirativo di partenza: se si decide di seguire un fil rouge allora si deve avere la coerenza di imporre una logica narrativa consistente e coerente con il motivo portante dell'opera, altrimenti meglio sarebbe prendere la fuga psichedelica e sbattersene di un plot che non (si) regge e che è fluido come il ghiaccio a cubetti (ogni cubetto una song) [si fa del protagonista un ragazzo in cerca del padre (il riferimento è John Lennon) per farlo sbarcare in America]. Ma l'esilità della trama è solo parte del discorso, più spinosa essendo la questione della traduzione in immagini dei brani: in questo l'inventiva latita del tutto, dimostrandosi, il film, scontato e di rara pochezza, con una serie di soluzioni straviste e a dir poco grossolane (anche quello che è lo spunto più riuscito - l'inversione, non priva di sagacia, di I want you - ricalca una quindicina di video musicali degli anni 80): Let it be con i disordini di Detroit e il funerale del bimbo ucciso, con tanto di coda gospel, che sfiora la pornografia mentale; tutte le sequenze in cui si tratta in maniera diretta di pacifismo, proteste e ammennicoli hippy vari (di infantilismo sconfortante); il siparietto Fragole & Sangue col Vietnam ricreato nel giardinetto di casa; il protagonista, sosia di Paul, che lascia di nuovo Liverpool con i bambini che lo accompagnano, sono tutti momenti di (falsa) ingenuità patetica.
Riguardo alle canzoni e alle loro reinterpretazioni questo forse risulta il lato più corretto e curato dell'intera operazione: così With a little help from my friends da marcetta, quale è, cita nel finale la ben più famosa versione di Joe Cocker, figura filologicamente corretta all'interno del film, che canta, da par suo, la Come together lennoniana (la coreografia dei passanti è citazione letterale di quella di Hair, il musical comediocomanda che non starei neanche a scomodare, e per mille ragioni). Per l'apparizione di Bono/Dr Robert (il cantante degli U2 e Izzard/Mr.Kite incarnano il classico guru/falso profeta trascendentale, figurine buttate via e virate su toni scontatamente grotteschi e macchiettistici), che si accolla I am the walrus, il John che amiamo di più, la Taymor non trova di meglio che solarizzare le immagini in un passaggio tristo che sembra la clip sfigata di un carneade qualsiasi che gioca a fare l'acidone su una tv privata (Bono ¹ canta anche la chiusa lisergica dei titoli di coda Lucy in the Sky with Diamonds con i suoi inequivocabili cieli di marmellata); per non dire di Because, che ci farà sempre piangere, e che meritava un momento di genio visionario e non l'orrenda sequenza parapubblicitaria di scene pratoline che la accompagnano. Per il resto razziando bellamente Sgt Pepper's, Magical Mystery, il White album, Abbey Road e Let it be (le canzoni utilizzate sono comprese tutte tra il 1963 e il 1969: la prima parte del repertorio beatlesiano è notoriamente off limits anche per i gli scarafaggi o i loro eredi) e zompettando tra i brani si dimostra che del songbook dei quattro si può fare scempio senza grossi sensi di colpa: è e sarà sempre più forte di qualsiasi cosa e sopravviverà a qualsiasi trattamento, esattamente come Shakespeare (Titus non l'abbiamo mica dimenticato). Soprattutto: che si può far passare questo come un film omaggio ai Beatles anche se non lo è in niente perché dello spirito delle loro canzoni non c'è che la patina semplicistica e stolidamente descrittiva dei tempi nei quali quelle canzoni vennero concepite e un mal interpretarne l'ironia, la profondità o la leggerezza, la portata innovativa, eversiva o la magia, in una parola l'essenza; c'è di contro il vuoto taymoriano e una fiera dell'escamotage ai quali ci si limita ad appiccicare una serie di figurine standard (laddove, invece, è ancora insuperato il modo in cui i quattro riuscirono a mitizzare qualunque cosa li riguardasse, creando aneddotiche e leggende persino sul nulla palese), c'è l'ambizione sbagliata di un'autrice che non ha nemmeno la temerarietà di una rilettura personale dell'argomento, affidandosi completamente a suggestioni di riporto. Un film che, donandoci una rivelazione (la jopliniana Dana Fuchs), ci infligge, come se non bastasse tutto il resto, una palata di noia annichilente.
Help

Meraviglioso omaggio alle immortali canzoni dei Beatles: 33 quelle utilizzate, intonate dagli attori o mero spunto per la sceneggiatura. Sono cantate in presa diretta (produttore T. Bone Burnett, arrangiatore Elliot Goldenthal, marito della regista), per lo più in solitario dall’interprete che viene, poi, raggiunto dall’accompagnamento musicale: l’effetto è dirompente, “vero”, evita quel senso di distanza dal vissuto nel racconto che le operazioni in musical generano con registrazioni in studio cantate in playback. Anche perché Julie Taymor non rincorre la visionarietà del Ken Russell di Tommy (solo ogni tanto: Hair, Fragole e Sangue, Full Metal Jacket): preferisce l’aderenza ‘realistica’ ai personaggi, al periodo, alla storia d’amore. Le canzoni sono innestate nel racconto affinché siano diegetiche (e vanificate dai sottotitoli italiani schizofrenici), sia i nomi che le azioni dei personaggi le citano (Prudence entra dalla finestra per “She came in through the bathroom window”; c’è anche il bus di ‘The magical mystery tour’). Menzione speciale per le coreografie di Daniel Ezralow (interpreta il prete) ed efficacissima, la migliore a memoria nel cinema, l’evocazione di un’epoca (dal 1963 al 1969) attraverso le sue coordinate ideali, emotive, artistiche. Una soggettiva drogata senza droga, con lo stesso effetto che accende(va) gli animi e fa(ceva) credere nei sogni. Ripercorriamo un immaginario emotivo in cui la Storia era a portata di mano: la visionarietà mistica, i sani sfoghi di rabbia per un mondo migliore. Ma ci sono anche lo scontro con le figure paterne, l’amicizia ribelle e inseparabile stile Bande à Part, la coscienza politica e umana fra disordini razziali e vittime del Vietnam. L’opera ha l’ambizione, raggiunta (nonostante gli scontri della regista con il produttore Joe Roth, che ha imposto tagli per 20’), di rappresentare le due anime degli anni sessanta, quella intimistica/artistica e quella rivoltosa/realistica. I resti del Sogno: un reduce pazzo, una disillusa attivista e un cuore spezzato. L’arte resta, le sue rivoluzioni no.
