TRAMA
Cobra, Negro e Mazinga sono tre celerini che sia nel pubblico che nel privato devono fare i conti con i propri problemi personali e familiari, con il peso della loro divisa, con l’odio che provano e ricevono, sfruttando la violenza come unico strumento per sopravvivere
RECENSIONI
In principio era l'Odio. Primo e unico motore immobile che invita alla carneficina, che si insinua e si irradia in ogni frattura, accrescendola ed espandendola a macchia d'olio. ACAB di Sollima parte da questo assunto per muovere verso le cause scatenanti, per cercare di analizzare dall'interno le propaggini del fenomeno, scegliendo per questo scopo la narrazione cinematografica. Se ACAB di Carlo Bonini utilizzava la forma romanzo per analizzare, descrivere e presentare i dati raccolti affermando che “Questa è una storia vera. Non una verità definitiva. E' una storia narrata attraverso la scrupolosa raccolta di documenti, atti processuali e testimonianze dirette di chi ne è stato partecipe, disponibili al momento della sua stesura”, ACAB di Sollima, ovvero il corrispettivo cinematografico di questa operazione, si articola seguendo uno stile differente. Nel film “Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale”, come recitano canonicamente i titoli di coda, ma la tensione per lo stesso obiettivo rimane, il bersaglio è comunque lo stesso. Sollima stringe sui tre celerini protagonisti, Cobra, Negro e Mazinga, utilizzando le loro vicende personali per aprire un varco su un mondo sommerso, per far risaltare senza eroismi le radici della violenza, della rabbia, della solitudine e prendendoli ad esempio di un universo desertificato in cui ogni ruolo istituzionale e sociale è ormai svuotato e snaturato, lasciato in mano ad una violenza che si ciba di se stessa, senza alcun margine di miglioramento o salvezza.
Sono personaggi rivestiti da un alone tragico insopprimibile, condannabili senza sconti e già condannati dalle proprie azioni, fotografati con contrasti netti e insistiti, fermi nella convinzione per cui nessuno schema è più in grado di leggere e sostenere la realtà, che sfugge di mano e che precipita verso la legge animale e primitiva del più forte. In questa lotta senza nome e senza onore rimbalzano i fantasmi di un passato recente e gonfio di ferite ancora sanguinanti: il G8 di Genova e la scuola Diaz, la “macelleria messicana”.
La fratellanza e il senso d'appartenenza ad un gruppo-famiglia sui generis da parte dei tre protagonisti si compatta e matura per difesa, fede e ideologia: una distorsione che si ritrova profondamente radicata nella storia italiana e che accomuna non solamente i celerini, ma dilaga anche tra le file degli ultras e dei centri sociali di destra, la cosiddetta parte “avversaria”, lasciando emergere un inquietante quanto lucido quadro di degenerazione che fa presa nei gruppi neo-fascisti e che scherma d'impunità le colpe personali e individuali a favore della difesa del gruppo. La storia di Cobra, Negro e Mazinga è racconto di un'attesa di un confronto finale, di uno scontro invocato dai tre come la giusta contropartita dopo l'orrore della Diaz, come l'estremo contrappasso da scontare prima dell'assoluzione o della fine. Ma c'è ben poco di assolutorio nel film di Sollima: ad ogni gesto corrisponde una conseguenza tagliente, una scelta ben precisa, un climax d'odio che, incalzato da un montaggio serrato, innesca un meccanicismo capace di tritare tra i suoi ingranaggi ogni aspetto sia della vita pubblica, sia di quella privata in una vertigine di causa-effetto soffocante.
È la descrizione di un fallimento sociale, di una struttura che collassa, di un contesto-mondo che si è già arreso all'evidenza di istituzioni ombra e di una politica sgretolata, sicuramente sorda e opportunistica, che fomenta il massacro senza tentare di arginarlo con i mezzi che non siano quelli della violenza stessa. Tutta la retorica del fascismo e della cultura di destra è il sotto-testo preminente e viene descritto con una simbologia quasi d'arredo di spazi come di anime (i quadri in casa di Cobra, i tatuaggi dei celerini, l'abbigliamento degli skinheads) nel vano tentativo di ricostruire un'identità individuale dilaniata e talmente smembrata da apparire del tutto inesistente, un appiglio utile solo per tentare di abitare e arredare il vuoto.
Il figlio del regista Sergio Sollima, dopo essersi fatto notare con la professionale, “poco italiana” serie tv Romanzo Criminale, esordisce al cinema con una pellicola altrettanto rara nel panorama nostrano, abituato a film moralistici se in odor di cronaca, simpatizzanti se in odor di crimine, politici se votati alla Storia con impegno civile. Sollima e i suoi valenti sceneggiatori (ereditati dal serial citato) fanno tutt’altro: questo è probabilmente il primo, vero spaccato “antropologico” sulla categoria poliziotto nel nostro stivale, dove i riferimenti all’attualità (il G8, la scuola Diaz e la morte di Gabriele Sandri) sono solo un mezzo per arricchire il quadro, non il fine di un pamphlet. Che, per altro, gli autori mantengono miracolosamente, non sempre bene, nella neutralità: tutti i poliziotti sono bastardi, come inneggiavano gli skinhead negli anni settanta, ma non sono da meno i soggetti che devono affrontare. Fra i poliziotti c’è chi abusa del potere, chi riversa nel mestiere la rabbia del privato (a questo servono i retroscena familiari, non sono il solito companatico), chi confonde servizio pubblico con servizio al proprio branco: del resto sono uomini che, come ben esemplifica l’imputato Cobra in tribunale, sono continuamente vessati, cui l’adrenalina va in circolo potentissima e che pensano solo a tornare a casa sani e salvi. Sollima e soci danno un colpo al cerchio e alla botte, per gran parte del film elencano i fatti senza giudicarli, lasciando questo compito allo spettatore. In un generoso calderone di eventi e temi, infilano anche la rabbia degli italiani cui i diritti sono negati mentre lo stato non muove un dito contro gli abusivi che occupano le case popolari e, come contraltare, il razzismo becero di ragazzi di destra. Quando, in un colpo di scena, il figlio si rivela assassino del padre e di ciò che rappresenta, si arriva allo zenit di una pellicola che, anche con un abilissimo uso della colonna sonora di rock inglese incazzato, vuole rappresentare La Polveriera Italia. C’è senz’altro qualche sbavatura per eccesso di bilanciamento (Adriano passa, senza soluzione di continuità, da ragazzo ingestibile e pericoloso a difensore dell’arma e del suo onore) ma lode ai registi che sanno girare e montare così in Italia, senza paura di essere duri e scomodi. Grandissimi Pierfrancesco Favino e Marco Giallini. Ispirato al libro inchiesta del giornalista di Repubblica Carlo Bonini (2009).