TRAMA
Larry ha un problema. E un altro. E un altro. E un altro. E un altro. E un altro …
RECENSIONI
Un vuoto (serio)
Il cinema dei fratelli Coen è incessante rielaborazione del medesimo tema: la miseria dell’uomo di fronte alle logiche inafferrabili della realtà, l’impossibilità della comprensione nel dominio assoluto del caos. Il distacco anaffettivo (ma mai esplicitamente sprezzante) del loro sguardo è specchio della consapevolezza dell’inutilità del raziocinio, è la rassegnazione al cospetto dell’inadeguatezza umana: per questo il loro umorismo non può che essere nonsense, i loro personaggi non possono che essere idioti - ognuno a modo suo, frutto di una differente epoca e di un diverso ambiente -, le regole dei generi con cui giocano non possono che incepparsi, la struttura dei loro film non può che girare, sistematicamente, a vuoto. Fanno del vuoto la sostanza, i Coen, nichilisti (”Deve essere faticoso da morire”) che mappando luoghi, tempi e sottoculture degli States fanno cinicamente tabula rasa del senso, ingolfano la narrazione facendo slittare la logica degli eventi costantementealtrove rispetto ai personaggi (e per questo la narrazione si abbandona alla non necessità delle digressioni, mentre eventi cruciali non vengono considerati): i protagonisti sono esseri minuscoli, elementi troppo piccoli per influenzare l’andamento del meccanismo in cui sono inseriti, per capire il dispiegarsi di logiche inconoscibili che è ottuso tentare di rapprendere in un nome e di fronte a cui l’uomo è inchiodato al crocevia tra tragedia, ridicolo e imbarazzo. Non inscenano uno scacco, i Coen, ma ne prendono coscienza: non c’è il dolore della sconfitta nei loro film, ma la consapevolezza di fronte ad un inerme dato di fatto. Per questo, costretti a incartare il nulla - una verità scontata, che non illumina alcunché - sono formalisti per necessità filosofica: l’inconcludenza algida dello stile è il solo contenuto possibile.
Film che sa di affare privato (richiama luoghi e date dell’infanzia/adolescenza dei fratelli) e che nonostante (o proprio in virtù di) ciò accentua l’inesorabile pessimismo sopradescritto, A serious man conferma quanto già detto, modulando le possibili variabili: nell’ambientazione autobiografica oggetto di denigrazione diviene dunque la comunità ebraica, l’annichilimento (tramite accumulo parossistico) dei meccanismi narrativi non riguarda un genere classico del cinema statunitense, ma una maschera comica tipica dell’ironia yiddish, lo schlimazel (in soldoni: colui che viene giocato dal destino); nella propria, inesorabile formalizzazione cinematografica del determinismo, i Coen (cineasti noir per antonomasia, ovunque si dirigano) inseriscono il protagonista di A serious man tra la schiera di individui che “non fanno niente” (quindi non hanno la presunzione di uscire dalla propria condizione iniziale, come i protagonisti di Arizona Junior, Fargo o Ladykillers, puniti puntualmente), ma loro malgrado vengono messi alle strette dallo sviluppo degli eventi, secondo una logica che vanamente tentano di capire (come in Blood simple, Barton Fink o Burn After reading) e che qui a che fare, ovviamente, con dio e relativi perché [Larry non appartiene certamente ai personaggi dei Coen che riescono a convivere con il nulla, in una deriva ottusa ma (forse proprio per il fatto di essere manifestamente ottusa) felice: la Marge di Fargo, concentrata sulla propria maternità e immune all’intorno e, naturalmente, Dude de Il grande Lebowski con la sua filosofia della sopravvivenza lisergica, del bowling e del cazzeggio]. Nel finale, quando la tendenza catastrofica personale sembra poter essere addomesticata, il demiurgo a due teste palesa l’ombra del male fisico e, subito dopo, la catastrofe naturale. Non c’è fuga: il momento in cui il figlio di Larry, Danny, chiama l’attenzione del creditore per restituirgli i soldi e questi si volta, il tornado all’orizzonte, è la manifestazione più esplicita della crudeltà della poetica coeniana, dai tempi dell’ultima inquadratura di Blood simple. Non c’è perché: la realtà non ha significato, da qualsiasi parte (e sotto qualsiasi sostanza) la si guardi; ritorna il principio di indeterminazione di freddyriedenschneideriana memoria (l’avvocato di L’uomo che non c’era, ricordate?), infranto comunque contro il medesimo assunto, la mancanza di senso: lo spettatore lo sperimenta sulla propria pelle, costretto a subire le illogiche angherie che i Coen riservano al loro personaggio (su tutte: la morte per infarto dell’avvocato taciturno), a perdersi con questo in vie cieche (si pensi al dialogo sui denti del non-ebreo), ad esperire la vacuità del linguaggio (si pensi ad esempio al magistrale montaggio alternato iniziale che unisce, senza alcun motivo, la visita medica di Larry alla lezione del figlio), a sposare il punto di vista di soggettive celibi, che non rimandano a nessuno sguardo, a interpretare segni che non rimandano a nessun significato (si pensi alla mdp che esce dall’orecchio del figlio di Larry, ribaltamento/citazione di Velluto blu: puro sollazzo cinefilo insignificante, forma senza sostanza e scopo, se non quello di disegnare la ciclicità del film, che si chiude sempre sui Jefferson Airplane, come a indicare, più che una dimensione immaginifica/sognata, un destino già scritto, forse, ma anche no, nell’esilarante prologo); in questo senso anche gli intermezzi onirici di stanca paternità bunueliana (e che, nota assolutamente fuori luogo, John Landis ha ravvivato da par suo nel meraviglioso e al solito sottostimato Delitto imperfetto) sono, oltre che emanazioni poco più grottesche della realtà filmica da cui nascono e correlativi della paranoia crescente di Larry, altre strade perdute, metri di pellicola senza un fine soddisfacente. Al solito, il nulla ha trovato forma. Con A serious man i Coen aggiungo un tassello nerissimo al loro affresco sulla deficienza (in ogni senso possibile del termine) umana. Peccano, a differenza del passato, di mancanza di originalità nella declinazione degli elementi umani dell’immaginario, caricature di caricature che producono riso solo perché mostrate nei propri automatismi autistici (reiterando se stessi, confermandosi stereotipi), nei propri tic portati allo sfinimento e nei propri confini di figurine già viste, regalando personaggi ovviamente prevedibili, ma soprattutto più modesti per inventiva, legati a meccanismi ironici consolidati (su tutti: l’incontro tra Danny e l’ultimo rabbino). Suo malgrado, questa banalità (che si percepisce anche in una regia che cerca sempre meno il puro virtuosismo) è segnale di una resa ancor più radicale di fronte agli stupidi limiti dell’uomo e di ogni sua (auto)rappresentazione.
Nobody to love
A serious man, il film più pessimista di Joel e Ethan Coen, suggerisce per metonimia addirittura il sopravanzare della fine del mondo. Dall’ottica minimalista di Larry Gopnick, si innesca un vero e proprio scioglimento della civiltà: se le radici “maledette” del presente sono iscritte negli antenati del passato (l’insoluto episodio iniziale), i disgraziati fatti di oggi accadono senza alcuna logica. La citazione iniziale sa di beffa: “Accogli tutto ciò che accade con serenità”. Ma si può accettare serenamente la morte? Impossibile evitare di dimenarsi fino all’ultimo. Queste convulsioni pre-mortem sono esattamente il film dei Coen: la pellicola, che si presenta come intervallo tra un esame radiologico (inizio) e il risultato dello stesso (fine), subito semina indizi di apocalisse complessiva. La deriva di Larry contamina la sua famiglia: il fratello è un giocatore d’azzardo e pedofilo, i figli sono indolenti e distratti (fallito il tentativo di iniziare il minore all’ebraismo, che si rivela una vittoria di Pirro), la moglie vede sparire la nuova fiamma in un’esilarante personalizzazione del melò (lui e lei si riavvicinano non per evoluzione sentimentale, ma per la morte dell’altro). La religione non dà risposte né capisce le domande: il pellegrinaggio dai rabbini, inevitabilmente, non ha sbocco, si perde in elucubrazioni varie, perché l’unica eventuale sapienza resta rigorosamente chiusa in auto-meditazione (il vecchio rabbino Marshak, inarrivabile custode dello scibile). D’altronde, con un’inquietante ironia leggibile a posteriori, i registi mostrano chiaramente la fatuità della tesi ultraterrena: sulle rive del lago, proprio mentre si discetta sull’antico ebraismo che salverebbe Larry, suo fratello Arthur si applica all’adescamento di bambini salutando la situazione con gioia (“Che aria meravigliosa!”). Larry, ossessionato dal confine della sua proprietà, non può farci niente: i confini tra normalità/rovina, serio/grottesco, tutti contenuti in quello vita/morte, saranno brutalmente infranti. Anche se la situazione sembra a proprio favore, come nel doppio, durrenmattiano incidente d’auto in simultanea, è solo il prologo di ulteriore blocco, qui il ritorno forzato alla convivenza coniugale. Gli scenari narrativi negano qualunque chiave interpretativa che sia progressiva, che muova in avanti: ogni lettura posta viene poi sistematicamente negata, per esempio l’ipotesi del conflitto Usa-Corea smentita dallo stesso protagonista (“Nessuno scontro di culture”, dice Larry). L’impossibilità di dare senso, la ricerca di speranza frustrata, lo scivolamento verso il buio (l’orecchio è un buco nero, ricordiamolo) avvicina gradualmente alla morte, sulla quale il linguaggio coeniano ha innescato un percorso di astrazione: qui non serve Chigurh per incarnarla, è superato anche il valore emblematico del killer-fantasma di Non è un paese per vecchi, poiché la morte è un’entità, presenza invisibile che si insinua nel corpo di Larry dopo averne concluso l’accerchiamento. La traccia apocalittica esplode nel finale: in anello narrativo inizio/fine (entrambi in montaggio alternato padre/figlio), nello spazio di una sola sequenza, l’ebreo Larry accetta la corruzione e comincia ad aspettare il dio della vendetta: risponde quindi alla telefonata con espressione ineluttabile, ovvero sa già cosa verrà detto. Il volto di Michael Stuhlbarg (l’attore più “coenizzato” della Storia), non inaspettatamente, diventa fossile. Non c’è tempo per ripagare i debiti, né del padre né del figlio. Subito tocca alla prole, agli alunni della scuola ebraica, poi altri ancora. Arriva l’uragano: la rivalsa del dio/caso/caos è fuori controllo, si espande a livelli imprecisati, forse all’umanità intera. E’ svanita l’ironia che deriva dallo scarto e dal superfluo: i Coen dialogano apertamente con la Morte e la Fine, sostengono la coincidenza delle due, non concedono speranza. Sempre meno mascherati da commedia (se esiste una commedia del dolore), sempre più aperti e diretti, quindi fuori luogo, “non per tutti”. Il disagio dopo A serious man oggi è il loro cinema: non c’è niente da ridere, nessuno da amare. La risposta ai Jefferson Airplane: Nobody to love.
Con Non è un Paese per Vecchi e Burn After Reading compone un feroce trittico all’insegna del cinismo e del nonsense, e ne costituisce il capitolo più feroce (e autobiografico per i registi ebrei) nel momento in cui va alla ricerca del senso della Vita, trovando un pugno di mosche proprio all’interno di una cultura/tradizione religiosa che vanta di detenerne il segreto fra Cabala e Torah. Sarà paradossale, ma l’opera dei Coen cui assomiglia di più è Il Grande Lebowski, sorta di contraltare fancazzista, dove nell’insensatezza il protagonista trova il valore più alto. Scrittura e messinscena sono singolari e sottili nel cercare accostamenti fra spietati “incidenti” e potenziali spunti per il loro significato, a partire dal prologo in apparenza gratuito, ambientato nel passato fra ebrei polacchi: arduo trovare un legame di senso con le vicende a seguire, eppure il brano è chiave di lettura nella contrapposizione fra marito razionale e moglie superstiziosa, con geniale conclusione “aperta” sulla natura del fantomatico dybbuk (soprannaturale o grottescamente mortale?). Anche Larry Gopnik è uomo razionale (un fisico) che, vittima come Giobbe (si ride, spietatamente) di una serie di sfortunati eventi, cerca le risposte nella religione, trovando solo rabbini laconici. I due autori giocano con il bisogno di risposte dello spettatore (e del protagonista): ad un certo punto, c’è l’incontro con il “sommo rabbino” che riporta tutto al rock’n’roll, suggerendo, implicitamente, che “Senso non c’è, ma ci sono cose per cui vale la pena vivere”, le stesse per cui la comunità osservante della tradizione ti punisce. Lebowski docet. Ai Coen, però, non sta bene chiudere con ottimismo o con il pensiero che le domande esistenziali, sorgendo solo nelle difficoltà della Vita, siano vane e passeggere: a spazzare via ogni speranza ci pensa un tornado, chiusura semi-aperta vezzosa a parte. Fra tanti livelli di lettura e interpretazioni possibili, ci si può rifare alla citazione iniziale di Radhi , “Ricevi con semplicità tutto ciò che ti accade”.