TRAMA
Una settimana nella vita di Llewyn Davis, giovane cantante folk che cerca di farcela, nel Greenwich Village del 1961.
RECENSIONI
C’è un sottile piacere nel sottoporsi alle crudeltà cinematiche di Joel e Ethan Coen. In un primo momento, c’è il piacere tradizionale e rassicurante dello storytelling: i fratelli sono degli artigiani abilissimi, che padroneggiano con maestria tutti i più solidi schemi del raccontare. È il piacere classico della bella storia, del buon meccanismo narrativo. Subito in agguato, però, appena ci si è accomodati nel movimento mitico, c’è lo spiazzamento: quel che t’aspetti non succede, le regole sono violate e l’orientamento è scombussolato. Infine, quella negazione si trasforma in una fascinazione inspiegabile: tra le pieghe improvvise di quell’anarchia ben studiata germoglia un senso nuovo, ricco. Così accade anche in A proposito di Davis, in un modo ancora più spiccato del solito. L’eroe è il loro solito shlemiel: cioè, secondo la Universal Jewish Encyclopedia, “colui che gestisce una situazione nella peggior maniera possibile o che è perseguitato da una malasorte più o meno dovuta alla sua stessa inettitudine”. Llewyin Davis è un cantante folk nel Greenwich Village del 1961: squattrinato, sfigato e idealista, passa da un divano a un altro grazie all’ospitalità di amici e conoscenti, non vende un disco neppure per sbaglio, ha appena perso il suo partner e si trova sempre al posto sbagliato al momento sbagliato. Si materializza una possibilità: andare a Chicago per parlare con Bud Grossman, un agente che potrebbe dare una svolta alla sua carriera. Insomma, avete presente la storia, no? Giovane di talento, sfortunato, affronta un lungo viaggio per trovare il successo e dopo tanta fatica... Be’, non è quella storia. I Coen sono dei manovratori sadici, che azionano le leve del racconto con apparente capriccio: a ogni bivio della sua storia – reale o figurato – Davis sceglie il binario più insolito, quello che delude la comodità dello spettatore e che nega la compostezza al racconto.
Si contano svariati arnesi del solito armamentario coeniano. Il modellismo, ad esempio: cioè quellattenzione nerd alla ricostruzione di un genere cinematografico o, come avviene qui, di un crocevia storico. Il Village del 61 è un suggestivo snodo politico, culturale, sociale, musicale. E i Coen si applicano con cura meticolosa alla sua rievocazione. O lamore per il mito, che aveva portato i Nostri a riscrivere unOdissea di shlemiels e schmucks in Fratello, dove sei? (forse il precedente più vicino a Davis nella filmografia dei Coen, più ancora del recente A serious man), e che qui si mostra in un misterioso percorso cifrato fatto di maschere africane, nomi di gatto, maledizioni voodoo, sfalsamenti temporali. A proposito di Davis, però e questo è il dato più forte del film è soprattutto un delicato enigma. A pensarci bene, con lucidità, non cè nulla di davvero misterioso: tutte le stranezze si possono spiegare con facilità: o con la sconclusionatezza del plot (e della vita, insomma) o con piccole prosaiche soluzioni. Anche se risolto, però, lenigma resta: è evocato con movimenti piccoli, accostamenti inattesi, atmosfere sognanti. Come un quadro di oggetti impertinenti, accostati senza unapparente ragione luno allaltro, la storia di Llewyn Davis pretende che la si legga come una qualche allegoria sotterranea, sottile: un viaggio nel tempo, un sogno, un pellegrinaggio simbolico col proprio spirito guida; oppure che se ne estragga un qualche senso cifrato: il difficile rapporto tra arte e mercato, tra successo e contestazione, o tra paternità e radicalismo. È unillusione ottica però, o una falsa pista: non cè un rompicapo da sciogliere; o se cè un rompicapo, non cè soluzione. Come alla fine delle sue sventure Giobbe, interrogato su quel che sapeva lui delluniverso, disse a Dio: Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Così Llewyn, forse, illuminato dalle botte che gli ha dato il destino: non cè un filo da tirare, e se cè non sappiamo dove sia.