Drammatico, Recensione

A CASA TUTTI BENE

TRAMA

Pietro e Alba festeggiano cinquant’anni d’amore. Dal loro matrimonio sono nati Carlo, Sara e Paolo, imbarcati con coniuge, prole, zie e cugine per un’isola del Sud. In quel luogo ameno, in cui Pietro e Alba hanno speso il loro tempo più bello, si riunisce una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi.

RECENSIONI

I membri di una famiglia allargata, tutti concentrati in un’isola per festeggiare le nozze d’oro dei patriarchi, restano bloccati a causa di una tempesta e convivono forzatamente sotto lo stesso tetto oltre il tempo previsto per il ricevimento. A quel punto le tensioni latenti, controllate fino a poco prima, esplodono e portano a galla antichi e nuovi rancori. Sì, l’innesco è palesemente artefatto, ma Muccino questo artificio non lo nasconde, anzi, evidenzia che quei personaggi lui li vuole lì a confrontarsi e a massacrarsi, non mistifica questa costruzione, punta da subito allo psicodramma, al conflitto tra tipologie. Tutto è palesemente chiaro, anche il ventaglio generazionale che viene dispiegato è accortamente pianificato. E il gioco - con un cast di divi nostrani, di volti utilmente riconoscibili - funziona: perché l’isola non è solo il posto geografico che non si può lasciare, ma anche il luogo metaforico (il passato) dal quale non si può fuggire, la stanza dei ricordi che si mettono di traverso, che parlano di speranze realizzate o recise, dei punti nodali delle esistenze di tutti. E il riflesso di un’omologa trappola umana televisiva che ne è espressione esasperata, parodica.
Il film corale non è facile, rischia di essere dispersivo, di non dare sufficiente spazio ai personaggi, di non creare empatie nello spettatore, che può ritrovarsi indeciso in chi riconoscersi o per chi parteggiare: Muccino riesce a passare da un carattere all’altro, da una storia all’altra, con grande disinvoltura, facendo parlare soprattutto la macchina da presa, non impelagandosi in psicologismi, ma stando attento alle dinamiche dei rapporti, al modo in cui le relazioni si evolvono, stanti i trascorsi su cui si fa luce al momento opportuno. Così si comprende sempre come orizzontarsi tra tradimenti detti, spiati, consumati secondo quella che - lo rivela il personaggio della madre-matrona (Stefania Sandrelli) - è una sorta di malefica tradizione familiare.
A Muccino interessa la mancanza di certezze del presente: i suoi personaggi sono tutti in bilico, vittime di una precarietà che è economica, emotiva, matrimoniale/familiare/ sentimentale o quella esistenziale di chi non riesce a capire dove o come vivere. Gli interessa rimestare nel magma della crisi in cui non esiste una vita che possa dirsi normale. E cos’è mai la normalità. La banalità di un oggi che ha abolito ogni complessità è al centro del discorso, le vacue fissazioni contemporanee, la pratica buddista come un rifugio, le illusioni che si coltivano contro ogni evidenza, la superficialità e l’ipocrisia con cui facciamo i conti ogni giorno (quelle degli altri, le nostre). E certi tarli (tipici dell’autore) quali la paura di «realizzare che non ho mai vissuto veramente», che è da sempre (non mi ripeto, lo scrivevo a proposito di L’estate addosso, film che tentava, fallendo, il difficile sincretismo tra il Muccino italiano e quello americano) il vero spettro dell’autore. Muccino rappresenta tutti i punti di vista senza approfondimenti posticci, sa che qualsiasi spiegazione sarebbe ridondante: è molto più attento a far scivolare l’intreccio (e questo film scivola, ragazzi: due ore che volano). Non c’è bisogno di sottolineare, per esempio, che la storia dei due sedicenni replica uno schema, che è un implicito prequel. E ci si affida a un finale che, come l’inizio, è leggibile, programmatico: le decisioni che vengono prese, la famiglia che si disintegra, i tradimenti che vengono vanificati. E poi eccola lì una nuova sposa che attraversa il lungomare, eccola una nuova storia di speranze e ipotetici fallimenti che va a cominciare.

A casa tutti bene è il miglior cinema popolare che si fa in Italia. E molta critica continua a storcere il naso di fronte a Muccino solo perché si ostina a vedere, in quelle che sono caratteristiche marcate, del compiacimento; perché ha successo (imperdonabile questa cosa) e perché, a dispetto di tanti altri registi che vogliono essere autori a ogni costo, non insegue la pedanteria dell’analisi sociologica, non intellettualizza né tenta di fare letteratura, ma usa i suoi personaggi per quello che sono, funzioni di un racconto cinematografico figlio del suo tempo. Ha stile Muccino, lo riconosci subito dal modo in cui riprende i suoi caratteri-pedine, da come li fa aggredire dalla camera a mano e li dipinge attraverso i dettagli, da come gestisce sapientemente il cast (Sabrina Impacciatore giganteggia, Gianmarco Tognazzi prenderà premi), rispolverando Stefania Sandrelli (forse anche per una citazione al cinema di Scola, al quale questo film fa l’occhiolino) e vecchie glorie, lontane dagli schermi da anni, come Sandra Milo.
Mi si dica un film commerciale italiano, uscito di recente, che sia girato meglio di questo. E mi si dica ancora perché Verdone va bene (e sì che va bene, lo amiamo Verdone) e Muccino no. Forse perché Verdone è più morale e bonario e nel cinico Muccino, invece, non c’è un’oncia di paternalismo?