Drammatico

BITTERSWEET LIFE

Titolo OriginaleDalkomhan insaeng - A Bittersweet Life
NazioneU.S.A./Corea del Sud
Anno Produzione2005
Durata118'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Sun-woo è il manager di un lussuoso albergo, ma anche il braccio destro di un boss mafioso, che gli affida un compito piuttosto delicato: sorvegliare la sua giovane e forse infedele amante.

RECENSIONI

La routine di un impiegato del crimine è sconvolta dal delizioso vento dell’eros: cuore e mente sono prigionieri di un incantesimo che spinge alla pietà e alla rovina, infondendo al tempo stesso la forza di sollevarsi dal fango per orchestrare una vendetta disperata, eccessiva, rigorosamente superflua. Kim Jee-woon (TWO SISTERS) cesella un’opera squisitamente manierata che, appiattendo quanto più possibile i personaggi (ridotti ai ruoli essenziali del genere: il bruto, la bella, il sicario redento, lo scagnozzo incapace) e cassando ogni psicologismo (basta uno sguardo a trasformare un destino, un rivolo di sangue a visualizzare la collera più feroce, una lampada a illuminare l’ultimo viaggio), si attiene con sfrontata semplicità alle regole del gioco, individuando nel cristallino susseguirsi dei combattimenti (sempre meno eleganti, man mano più feroci, beffardi, elaborati, in un crescendo che passa attraverso l’acqua, la terra, il fuoco e il ghiaccio, approdando a un prefinale sontuoso che si fa beffe della propria parvenza griffata – la dolce vita) il senso del romanzo di (de)formazione di Sun-woo. Il coup de théâtre conclusivo è tutt’altro che una trovata lieve e sdrammatizzante: evocando coerentemente l’incipit, l’epilogo scioglie (?) l’enigma circa le ragioni profonde dei toni fumettistici e stereotipati dell’opera. Solo nel sogno si può (tentare di) cogliere l’essenza del delirio quotidiano che chiamano vita.

Un giorno di primavera un discepolo guardava alcuni rami che si muovevano al vento. Chiese al suo maestro:"Maestro, sono i rami a muoversi o è il vento?'

Senza neppure gettare uno sguardo a quello che il suo discepolo stava indicando, il maestro sorrise e disse:'Quello che si muove non sono né i rami né il vento. È il tuo cuore e la tua mente'.

Approccio filosofico al genere, impianto edipico classico, controllo assoluto della materia sentimentale: Kim Jee-Won squaderna un'opera di elegante violenza, di stilizzata ferocia, di romanticismo trattenuto e lancinante. Impassibilità e dramma, astrazione e tragedia, algori noir e fiammate mélo si contendono 120 minuti di fulgida magnificenza visiva. Al suo quarto lungometraggio, l'eclettico cineasta coreano (al suo attivo una commedia macabra, un dramma comico e un horror sottilmente dislocante) si dimostra capace di frequentare superbamente anche il noir, disegnando la parabola autodistruttiva di Sun-woo (Byung-hun Lee) con una potenza figurativa e una padronanza stilistica semplicemente stupefacenti.
Il modello di riferimento è, inequivocabilmente, Le Samouraï (1967) di Jean-Pierre Melville: l'autonomia morale dell'individuo nella sofferenza, la solitudine come teatro della verità e la bellezza solenne dello scontro con la morte sono puri precipitati melvilliani. Ancora: lo splendore ghiacciato della messa in scena è palesemente derivativo, il protagonista un vero e proprio clone di Delon - di cui riproduce perfino la scriminatura - e le sequenze ambientate ne la dolce vita, il bar sopraelevato dell'albergo di lusso, richiamano per illuminazione e grammatica visiva quelle del Martey's nel film di Melville.
Non tutto, tuttavia, gira alla perfezione: Kim Jee-Won non si limita a riproporre, tirandola a lucido, la lezione del maestro, ma la ammorbidisce in sede di sceneggiatura, smarrendone sensibilmente la durezza fenomenologica e la quintessenziale asciuttezza. A intaccare la granitica struttura melvilliana sono soprattutto la caratterizzazione caricaturale di Moon-suk (Roe-ha Kim), l'inserimento di parentesi sguaiatamente grottesche e lo stridente didascalismo di alcuni passaggi narrativi. Ma a queste fastidiose cadute di tono corrispondono, sul versante opposto, una gestione simbolica dello spazio di supremo rigore, una sicurezza inarrivabile nell'orchestrazione delle sequenze d'azione e una sontuosità visiva così imponente da rimanere letteralmente pietrificati.
Le Samouraï
 rivive, in versione cool.

PS- Questa recensione è stata quasi completamente invalidata dalle dichiarazioni dello stesso Kim Jee-woon che, rispondendo ad una mia domanda nella conferenza stampa del Korea Film Festival, ha affermato di aver visto Le samouraï soltanto dopo aver finito A Bittersweet Life. Suo modello di riferimento è stato invece Un flic (Notte sulla città, 1972), l’ultimo e sottovalutatissimo film di Melville. Con sorridente candore, Kim ha anche aggiunto che se avesse visto Le Samouraï prima di girare A Bittersweet Life, avrebbe fatto un film migliore. Un grande. Per un malinteso senso dell’onestà intellettuale ho deciso di lasciare la recensione inalterata, come esempio aureo di sovrainterpretazione.