Drammatico, Recensione

LA RAGAZZA SENZA NOME

TRAMA

Jenny, una giovane dottoressa, si sente in colpa per non avere aperto la porta del suo ambulatorio a una ragazza trovata di lì a poco senza vita. Dopo aver appreso dalla polizia che non c’è modo di identificarla, Jenny ha solo un obiettivo: scoprire l’identità della ragazza, così che possa avere un nome sulla tomba (dal sito ufficiale).

RECENSIONI

«Benedetto il nome del Maestro dell’universo che ci ha insegnato le sue vie giuste! [...] quando Mosè è morto, ci ha insegnato a seppellire i morti».  Anche gli ignoti, a cui bisogna dare un nome. È un dovere etico. Finché non diamo un’identità a un corpo siamo tutti un po’ in torto. È questo il pensiero che affligge Jenny Davin, medico condotto nella città di Liegi, che pur di dar contro al proprio tirocinante, già rimproverato di eccessivo coinvolgimento verso i malati, gli impedisce di rispondere al citofono dell'ambulatorio quando questo suona un'ora dopo l'orario di chiusura. Un atto di prevaricazione punito dalle conseguenze. Si scopre che a suonare, come dimostreranno le registrazioni della camera di video-sorveglianza, è stata una giovane donna di colore trovata morta. «È qui - come hanno dichiarato i registi Jean-Pierre e Luc Dardenne, che la protagonista - comincia a essere ossessionata da questa ragazza sconosciuta. L’immagine del suo volto sullo schermo è l’unica traccia che abbiamo noi e l’unica che avrà Jenny». Impossibile per lei non considerarsi parte in causa rispetto all'accaduto. Un tormento che la costringe a mettersi in discussione come persona e a rivalutare le proprie priorità (l'ambizione; l'affermarsi nella professione per sentirsi umanamente realizzata); l'urgenza adesso è una sola: capire chi era quella ragazza, e nel frattempo, assumersi gli oneri delle sue spoglie.

Ecco allora che il film si struttura secondo i meccanismi dell'indagine, lasciandosi condizionare dalle sue dinamiche (tutto accade secondo le logiche di consequenzialità, procedendo per accumulo). A interessare i registi però non è tanto arrivare alla risoluzione del caso, quanto, attraverso questo, diffondere tra le persone coinvolte, come fosse un contagio, il complesso di colpa, che li pone tutti, comunque, colpevoli di meschinità. I personaggi si ritrovano sempre più chiusi nella morsa di un reciproco condizionamento, che rivela le trame di un rapporto di sopraffazione. In termini di messinscena tutto ciò si traduce in un confinamento dell'azione all'interno di spazi claustrofobici, che sembrano non concedere vie di fuga e permettere soltanto un  gioco al massacro, per mezzo del quale denudare fino in fondo l'ipocrisia dei partecipanti. I Dardenne proseguono il discorso metariflessivo cominciato con Il ragazzo con la bicicletta e continuato poi in Due giorni, una notte. In La ragazza senza nome il confronto diretto con le cose si fa via via un po' più lontano; c'è sempre un filtro che mette in relazione: la realtà passa attraverso lo stetoscopio (su cui si apre il film), il cellulare, il citofono, la camera di video-sorveglianza. Non vediamo mai la ragazza uccisa, ma soltanto la sua immagine riprodotta; anche uno dei testimoni dichiarerà di averla vista, ma attraverso un vetro. In un certo senso è come se i personaggi sfuggissero dal reale perché informe, eccessivo; meglio quindi mediarlo, accettarne la  rappresentazione. Una costruzione di resoconti simulati, sistematicamente sconfessati, di eventi che restano sempre da immaginare, come a dichiarare l'impossibilità di istituire un livello incontrovertibile di verità. È questa consapevolezza che probabilmente ha portato i due registi a confrontarsi con le coordinate narrative del 'genere' e ad allontanarsi progressivamente dall'approccio epidermico ai fatti che aveva caratterizzato il loro primo cinema.