TRAMA
1919. Connor, un agricoltore australiano, intraprende un lungo viaggio verso la Turchia alla ricerca della verità riguardo la sorte dei suoi tre figli, dati per dispersi nella battaglia di Gallipoli.
RECENSIONI
Per l’esordio alla regia Russell Crowe attinge alla storia del suo paese e racconta gli esiti tragici della battaglia di Gallipoli, durante la Prima Guerra Mondiale, soffermandosi su una famiglia di agricoltori australiani, privata dei tre figli maschi, presumibilmente morti sul campo di battaglia perché non più ritornati in patria. Negli anni immediatamente successivi la madre impazzisce di dolore e, dopo il suo suicidio, il padre decide di andare in Turchia per trovare i corpi dei figli e dare loro degna sepoltura. Mettendo in scena il romanzo “The water diviner. Il viaggio di un padre in cerca dei suoi figli”, di Meaghan Wilson-Anastasios e Andrew Anastasios (co-sceneggiatore insieme a Andrew Knight), Crowe, anche interprete di un personaggio senza ombre né macchie, segue un percorso molto classico, dove Storia e storie si intrecciano inseguendo il melodramma.
L’incipit, in cui il protagonista esplicita la sua sensibilità particolare di rabdomante, pone solide basi, ma le premesse sono meglio degli sviluppi. I facili parallelismi sono infatti dietro l’angolo (come è capace di trovare l’acqua, l’uomo sente anche la presenza dei figli, avendo con la terra e ciò che contiene un legame profondo e indissolubile), così come il subentrare di personaggi tanto funzionali al racconto quanto improbabili: l’ufficiale dell'esercito turco di buon cuore, il ragionevole colonnello della Imperial War Graves Commission con il compito di identificare i caduti, il bambinetto in cerca di un padre, la puttana dal cuore d’oro e, soprattutto, la bella vedova turca inizialmente ostile poi arrendevole, che abbassa lo sguardo ma brucia di desiderio in un tripudio di non detti e mossette. Gli avvenimenti si susseguono con linearità, senza grandi sorprese ma con la capacità, da non dare per scontata, di coinvolgere, grazie anche al supporto di solidi professionisti, nella fotografia dalle calde tonalità (Andrew Lesnie, a cui dobbiamo la luce delle due saghe tratte da Tolkien), come nella colonna sonora a più mani che alterna enfasi a sobrietà. Russell Crowe dirige con il cuore in mano, cercando di coniugare l’afflato epico del soggetto con il groviglio interiore che dilania il protagonista e punta tutto sull’impatto emotivo che, a causa anche di contrasti piuttosto ricattatori, non manca di centrare il bersaglio della commozione. Se si apprezza l’onestà intellettuale delle intenzioni, con l’analisi di torti e ragioni di entrambi i fronti accantonando rabbia e patriottismo a favore di empatia e riconciliazione, occorre però riscontrare una certa forzatura nella predisposizione degli snodi narrativi, tutti volti alla comunicazione di un messaggio di pace universale. L’abuso di stereotipi limita quindi la portata del progetto, non completamente asservito, ma sicuramente piegato alla tesi positiva veicolata. Bisogna comunque dare merito a Crowe di sporcarsi le mani, non limitandosi a compiacere le presunte aspettative del pubblico ma prendendo posizioni laiche e pacifiste, soprattutto in un momento storico come quello contemporaneo in cui il cinema, riflettendo la società, pare avere ritrovato uno spirito bellico d’altri tempi.
Apprezzabile, poi, il tentativo di avvolgere nella magia la scansione degli eventi suggerendo toni favolistici. Anche in questo caso Crowe non va per il sottile e prende la cosa di petto creando un leitmotiv letterario negli insistiti rimandi a “Le mille e una notte”. Se la fluidità ogni tanto vacilla, la sequenza del padre che durante la tempesta di sabbia raggiunge i tre figli, li copre con un panno per proteggerli e abbracciandoli li trasporta altrove al grido di “tangu” è però davvero evocativa, un inno alla fantasia come unica via di fuga dagli orrori del quotidiano.
