TRAMA
RECENSIONI
Documento psichedelico, onirico, spirituale, simbolico e grottesco di Herzog che, in Africa (più precisamente: Sahara, Kenya, Tanzania, Golfo della Guinea, Canarie), riprende deserti e carcasse, pozzi di petrolio e relitti aerei, baraccopoli e indigeni condendoli con interminabili panoramiche a carrello laterale. “Fotografie” meravigliose, gettate in un calderone di suggestioni varie (anche musicali) che tentano, non sempre con successo, di fare da commento evocativo alla voce narrante, al suo approccio laconico al Popol Vuh, testo sacro sudamericano di cui si rispetta la suddivisione in tre parti (Creazione, Paradiso, Età dell’oro). Narrato e rappresentazione filmica discordano volutamente, senza sinergia, anche oltre le intenzioni dell’autore, perché si gustano i singoli frammenti separatamente, lasciando il senso di un puzzle indefinito se non forzato. Il primo capitolo reitera gli atterraggi degli aerei per poi spostarsi sul deserto, rappresentazione dell’Alba dei tempi per cui Herzog ha un’evidente nostalgia (dice nel finale: “Nulla è grande come la sabbia, nulla è grande come la pace”), ironizzando sul capolavoro creativo di Dio, l’uomo, e sul suo “Paradiso”. L’Eden del secondo capitolo, infatti, è la miseria africana e il contrasto fra la natura selvaggia e una modernizzazione mai giunta a compimento ma già apocalittica. Nell’ultima parte, “L’età dell’oro”, il registro dell’autore si fa del tutto grottesco, nel momento in cui fa recitare dei figuranti (passanti) tedeschi e la voce narrante segue sempre più le proprietà allucinate (la “fata Morgana”) delle immagini, commentandole con frasi del tipo “Questo paesaggio non ha alcun significato”. Si corre, un po’, il rischio del ridicolo pretenzioso: da un lato, si ha la sensazione che le suggestive sequenze che hanno “attraversato” l’anticonformista e avventuriero regista siano state agglomerate dando “senso” a posteriori, in preda ad un estro da “arte concettuale” o post-strutturalista (dove l’oggetto non ha l’arte in sé ma, ambiguamente, l’acquista), dall’altro è innegabile che l’opera, coraggiosa e originale, riesca a diventare essa stessa ontologia del Mistero. Cosa ben rappresentata da quell’oggetto indecifrabile, in movimento, che ritorna: forse è “la” cinepresa. Nel mix di musiche, ricorrente Leonard Cohen (“Suzanne”, “So long Marianne”, “That’s no way to say goodbye”) che sottolinea questa visione pessimista del progresso dell’uomo rispetto al ritorno alla Natura.
