TRAMA
[Film non uscito nelle sale italiane] Incapaci di accettare la perdita del figlio nello tsunami del 2005, Jeanne e Paul Belhmer sono rimasti a Phuket. Aggrappandosi disperatamente al fatto che il cadavere non è mai stato rinvenuto, Jeanne crede che il figlio sia ancora vivo.
RECENSIONI
Secondo lungometraggio del trentaseienne cineasta belga (classe 1972) Fabrice Du Welz, Vinyan è un horror antropologico di arcana e misterica bellezza, squarciato da abbaglianti lampi visionari e illuminato da una lucentezza primordiale. Se Calvaire (2004) scoperchiava la barbarie maschilista saldamente insediata nel ventre molle dell'Europa utilizzando come piede di porco un corpo nomade (quello di un cantante itinerante sessualmente ambiguo), Vinyan ricorre al corpo femminile per penetrare nelle ferite aperte di una terra (il Sud-est asiatico) vampirizzata dall'Occidente e funestata dal terribile maremoto del dicembre 2004. Un corpo, quello di Jeanne (Emmanuelle Béart), che nel corso del film scioglie progressivamente i vincoli col marito Paul (Rufus Sewell) e con la civiltà occidentale per ricongiungersi al brutale candore della natura, il rimosso per eccellenza.
Du Welz ha affermato di voler capovolgere il principio dei film di fantasmi classici, facendo entrare dei vivi nel mondo dei morti. E in effetti quello di Vinyan è un vero e proprio viaggio in un universo naturale in cui la morte è presenza costante e incombente, cicatrice non ancora rimarginata per tutti i personaggi e ipoteca spirituale che aleggia ininterrottamente sull'intera vicenda. La centralità fisica di Jeanne, entità che nel corso del film si impregna di connotazioni conflittuali, si riallaccia al ruolo polemico e antagonista rivestito dai soggetti femminili nel nuovo horror francese: il corpo della donna è il luogo critico di ripensamento e riconfigurazione dei rapporti di forza su cui si fonda la "civiltà" xenofoba (À l'intérieur), persecutoria (Martyrs) e nazistoide (Frontière(s)) della Francia contemporanea (e non solo). La politicità della Nouvelle Trouille è politicità del corpo femminile.
"Quando qualcuno ha una brutta morte, lo spirito è completamente disorientato, non sa più cosa fare e dove andare. Lo spirito diventa furioso: si dice che diventa vinyan. (...) La luce è là per guidare vinyan verso la casa dei morti, perché vinyan trovi il riposo. C'è una luce per ogni spirito". Pronunciate a Jeanne da Thaksin Gao (Petch Osathanugrah) su una spiaggia, mentre alcuni indigeni accendono lumi in grossi cilindri di carta che si levano in volo, queste parole illustrano il significato del titolo e al tempo stesso il nucleo semantico profondo del film: restituire senso e prospettiva a una realtà umana devastata dallo tsunami e violentata da un Occidente portatore di sfruttamento, degrado e isterilimento.
Identificato inequivocabilmente con le figure maschili che gestiscono il business umanitario (Matthias, il responsabile dell'organizzazione filantropica di stampo francese), che sguazzano nel sottobosco malavitoso (l'uomo che accompagna i coniugi Belhmer nella prima parte del viaggio e che parla la loro lingua) e che trafficano lucrosamente in vite umane (Thaksin Gao, individuo di melliflua astuzia dai modi sornionamente francesizzati), il parassitismo occidentale è altresi assimilato ad una razionalità tanto ottusa quanto esposta alle aggressioni irrazionali (Paul, imbelle incarnazione di un buon senso incapace di resistere alle radicali pressioni della moglie, proprio come la costruzione in rovina nel cuore della foresta che, nel prefinale, è sventrata da radici di piante e ghermita da rami di alberi).
All'estremo opposto si collocano le figure femminili, sia Kim (Julie Dreyfus), fotografa e assistente di Thaksin Gao, sia soprattutto Jeanne, personaggio che rappresenta quella fertilità liquida (attenzione alla prima inquadratura, in cui emerge letteralmente dall'acqua), libera (a differenza delle donne thailandesi e birmane, costrette alla prostituzione o assoggettate in misteriosi rituali di controllo) e indifferenziata (Jeanne è pronta a riconoscere il suo Joshua in ogni fanciullo) di cui il fantomatico popolo della foresta, composto esclusivamente da bambini e vecchi, ha disperatamente bisogno. E nella voracità del pasto totemico finale, vendetta collettiva dei figli scacciati ("Tu l'hai lasciato partire", rimprovera ripetutamente Jeanne a Paul), si consuma l'ultimo atto di affrancamento dall'autorità maschile e razionalmente colpevolizzante. Finalmente, lordi di sangue e fango, inondati dalla pioggia e dal sole, la donna e i bambini possono abbandonarsi ad un riso liberatorio.
Du Welz gira in stato di grazia permanente, come se ogni scenario naturale e umano fosse insieme un'apparizione e una conferma, una rivelazione e un ritrovamento. Inutile e fuorviante tirare in ballo modelli di riferimento e ispirazioni stilistiche (curiosa coincidenza: Herzog, uno degli autori amati da Du Welz, ha lasciato la Thailandia proprio all'inizio del tournage di Vinyan, dopo aver terminato le riprese di Rescue Dawn): più e meglio che in Calvaire, con una compostezza che mette i brividi, il cineasta belga fa del linguaggio filmico il luogo dello stupore impassibile, assegnando alle soggettive il compito di dischiudere l'inquieta fermezza della natura. Una pellicola lacerata tra la greve terra maschile (non a caso Thaksin Gao verrà sepolto vivo) e la rigenerante acqua femminile (si presti attenzione al finale di gocciolante solarità), ma orgogliosamente ritto sulle proprie gambe, quelle di un belga che, come un etnologo insubordinato, filma un horror fertilmente palingenetico.

Vinyan, film fuori concorso quasi ignorato nell'ambito della kermesse veneziana 2008, è l'opera seconda di Fabrice Du Welz, il regista di Calvaire, autore (questo secondo film ce lo dice chiaramente) dotato di uno stile e di uno sguardo già riconoscibili. L'incipit è straordinario: le bollicine che salgono, e che lentamente si tingono di rosso, diventano un prologo muto che dice della tragedia che ha preceduto il tempo presente della narrazione (lo tsunami, ovvero l'orrore) e che culmina nell'apparizione di Béart che emerge come livida Venere dalle acque: è un momento visivamente folgorante che, a suo modo, già racconta e che introduce a un nuovo calvaire, fatto di speranze, deliri, tormenti.
Du Welz e il suo fido operatore Debie, con avvolgente camera a mano, ancora una volta creano un mondo a parte, fanno della foresta birmana un luogo concreto e mentale ad un tempo: Vinyan è un film “fisico” in quanto il dramma che cova non emerge dalle parole, ma trasuda dai corpi dei protagonisti, che dicono della tensione spossante che li abita; l'elemento facilmente pietistico (la scomparsa del figlio) non viene mai elevato a cardine di trattazione, né spettacolarizzato: è presente nei fatti, nel rapporto sempre più difficile tra Jeanne e Paul e in quello tra essi e la natura ostile che li circonda, restituita attraverso i colori desaturati di un'immagine terrea e sgranata. L'horror è un'ombra; circola con la tensione che, costante, domina il viaggio dei protagonisti; esplode in alcuni fulminei momenti apicali (come nel predecessore, buona parte del film suona come introduttiva a qualcosa da venire); riverbera nell'ossessione illogica di Jeanne; è radicato nel paesaggio umano primordiale (la scena del riso mette i brividi) che si offre agli occhi dei protagonisti. E ai nostri.
Du Weltz conferma il suo limpido disamore per la didascalia: il rapporto tra i due coniugi non è mai spiegato, dominato dal disperato senso di perdita che lo fa deteriorare lentamente; tutto il film si snoda in un continuo divenire che non si appoggia mai ad alcuna segnalazione del soggetto, ma si decreta come immersione graduale in un contesto sempre più astratto e inquietante (il parallelo con Flandres di Dumont si impone a questo punto): è soltanto un'ipotesi quella per la quale la scomparsa del figlio sia stata determinata da una negligenza paterna (vera o supposta dalla madre) e che il finale ferino e paranoide sancisca l'espiazione dell'uomo, poiché a rilevare è, più che la definizione significativa degli eventi, il loro inserimento nel quadro generale della messa in scena.
Vinyan offre motivi a palate per entusiasmarci: è denso e pieno di personalità; non è un film riducibile all'esposizione di una storia (al contrario: delega al linguaggio specifico del cinema la sua espressività, se vi par poco); è diretto e girato magnificamente; è, decisamente, l'opera di un talento vero.

Una coppia benestante perde le tracce del figlio in Thailandia durante lo tsunami del 2005. La moglie riconosce però il bambino in un video girato in Birmania e decide, insieme al marito più riluttante, di intraprendere un viaggio che li porterà alle radici della propria ossessione. Il regista belga Fabrice du Welz, autore di un horror (Calvaire) inedito in Italia ma di culto, trasforma un luogo di vacanze da sogno in un antro cupo e spettrale. È questo l'aspetto più interessante dell'opera di du Welz, capace infatti di coinvolgere lo spettatore in un'atmosfera di progressiva perdita delle certezze. Peccato che il doloroso cammino inciampi in alcuni cliché più faticosi che coinvolgenti: sgranature, macchina da presa manuale zigzagante, un'oscurità diffusa che tutto ottenebra e poco svela e una recitazione patibolare dove al tentativo di razionalizzare del marito (un Rufus Sewel in parte), si contrappone lo stato di trance alternato a isteria della moglie. Emmanuelle Beart si butta a capofitto nel rischioso progetto, ma il suo vagare nella giungla con abitino da gita in campagna sfiora più volte il ridicolo involontario. Alla fine la concretezza della ricerca assume i toni di un viaggio nelle profondità della psiche. Che la caduta agli inferi della coppia, non esente da momenti suggestivi (l'accensione delle lampade per i morti, l'intrico dei luoghi, l'aggressività dei bambini), diventi metafora della tragedia collettiva che ha colpito la Thailandia? Che la vera catarsi derivi dal ritrovare se stessi uccidendo (nella mente e/o nella realtà) chi ostacola la ricerca? Difficile capirlo, perché il film si limita a mostrare la deriva dei personaggi sfruttando il potenziale dei tanti interrogativi per costruire un percorso estetizzante non privo di fascino ma, alla fine, soprattutto estenuante.
