TRAMA
Dal racconto di Alessandro Baricco, la vita di un pianista nato su di un transatlantico che non metterà mai piede sulla terra ferma. Tra le onde del mare cercherà di afferrare il senso della vita, lontano dai tumulti del secolo.
RECENSIONI
Semplice sillogismo: Tornatore ama il virtuosismo, il dolly e via dicendo; per Tornatore un regista è bravo quando impressiona con virtuosismi, dolly e via dicendo; Tornatore crede di essere un grande regista. Il "crede" è d'obbligo perché il sillogismo non è aristotelico ma tornatoriano. Partendo da un racconto lungo (o romanzo breve?, la solita storia.) di Baricco (che a quanto pare non è rimasto molto soddisfatto del risultato finale) Tornatore realizza un film lungo, ambizioso, tronfio, che vorrebbe essere profondo ma che resta in superficie. Lo spettatore dovrebbe condividere col protagonista le emozioni vere di una vita unica cullata più o meno dolcemente dalle onde del mare, ma rimane soltanto stordito e vagamente annoiato da un ipertrofico accumulo di bozzetti non rifiniti, di figurine sbiadite come il protagonista (uno spaesatissimo Tim Roth), uomo sulla carta fuori dal comune, nella "realtà" filmica un pianista come tanti, un poco più ingenuo, che dovrebbe suonare musica "inaudita" e che invece ci ripropone le vetuste melodie di Morricone, le stesso che il maestro ci propina, inalterate, da almeno venti anni, da quando cioè ha cessato di essere quel grande compositore che è stato negli anni settanta e ha iniziato a rifare se stesso. Il modello del regista come sappiamo è Sergio Leone, autore oggi anche sopravvalutato.
L'astuto autore di Nuovo Cinema Paradiso, a differenza del buon Leone, non conosce tuttavia il segreto dell'epica nel cinema ma solo, purtroppo, la malsana e dispendiosa ricetta per la ridondanza gratuita (messa a frutto in maniera sublime nel successivo, tremendo, Maléna). Un pasticcio oceanico.

“Non sei fregato finché hai una buona storia da raccontare”…e gli interlocutori del personaggio di Pruitt Taylor Vince pendono dalle sue labbra, incantati, come noi, da una favola mista a leggenda su di un uomo che preferisce una vita a "pianoforte", a 88 tasti, non di più, in un limbo della Storia e dell'identità, in simbiosi con il mare e la nave, in attesa che sia il Mondo a visitarlo e non viceversa. Forse la musica dell'artista è soave (gran lavoro per Ennio Morricone, soprattutto quando si ispira ai volti, e per la pianista Gilda Buttà) proprio perché si condanna ad osservare, estraneo alle vicende umane e controcorrente rispetto ai tanti emigranti che sognano l'America, si sradicano e lasciano la propria "casa". Giuseppe Tornatore, come sempre, ha coraggio a tradurre in un kolossal (la ricostruzione del transatlantico, le migliaia di comparse) di due ore e mezzo il monologo teatrale di Alessandro Baricco: ma crede nella magia di una buona storia, sfodera i suoi dolly, cita Sergio Leone (“Che cosa hai fatto per tutti questi anni?” “Ho suonato”), si lascia trasportare dall'affabulazione epica, romantica, lirica, sognante per restituire un racconto con l'anima, abbellito artificiosamente, ma con l'anima (musicale, sontuosa, elegante, commovente). Il suo cruccio fondamentale resta la memoria: non è giusto dimenticarsi di "Novecento", solo perché non ha lasciato traccia di sé nell'era della riproducibilità tecnica, della cultura e dell'effimera fama di massa (vedi anche le riflessioni sullo stesso tema in L'Uomo delle Stelle). Adora i sognatori, nel bene e nel male, e il ricamo nella galleria dei personaggi. Peccato che non abbia sempre il senso della misura (la scena con Taylor Vince ubriaco, la gag del quadro, quella finale sul paradosso di Roth, gli inopportuni controcampi sulla parrucca perduta durante la sfida con Jelly Roll Morton), e rischi di spezzare l'incanto della messinscena con siparietti comici fuori luogo (per quanto funzioni, infine, far recitare Tim Roth fra Stanlio e Ollio). Da incorniciare la scena del pianoforte "mobile" e la sua danza con l'oceano.
