TRAMA
Tre fratelli durante la seconda guerra mondiale: una repubblichina, un partigiano e un neutro, dalla parte del “vecchio buonsenso” che si riconosce nel dovere, le cui vicende si intrecciano – misteriosamente – con quelle di due sorelle e della figlia di una di loro.
RECENSIONI
Il sangue dei vinti è un film sulla resistenza. La “r” minuscola è voluta, perché la resistenza cui faccio riferimento non è la guerra di liberazione dal nazifascismo, ma piuttosto quella che lo spettatore deve opporre durante la visione del “film” - nel senso letterale di pellicola che viene proiettata sullo schermo, perché film questo certo non lo si può definire - alle fortissime spinte di natura innanzitutto fisica che lo porterebbero in un lampo fuori dalla sala. Ma perché resistere? La risposta non c’è, almeno non nel film; personalmente sono rimasto fino alla fine per una curiosità estetica, domandandomi fino a dove potesse spingersi il Brutto (questo sì con la lettera maiuscola, visto che Soavi ne dà un’incarnazione assoluta). E non sono rimasto deluso: Il sangue dei vinti, eccezionale in questo, supera qualsiasi aspettativa. Quello che ci interessa analizzare in questa sede non riguarda la polemica che il “prodotto” di Soavi - non me la sento di chiamarlo né “opera”, né “lavoro”, ma anche “prodotto” è improprio, visto che in realtà non lo è del tutto: ne manca ancora più di metà che andrà a costituire un’imperdibile fiction in quattro puntate - suscita all’interno del dibattito (di per sé comunque inquietante) sul revisionismo, bensì le scelte puramente formali, estetiche appunto, che ne sono alla base e che lo rendono un film brutto di un Brutto oggettivo (come oggettivo può essere il Bello di 2001 o della Commedia dantesca). Di solito è difficile essere così lapidari, o assoluti, senza risultare acritici; qui è proprio il pensiero critico che conduce all’assolutezza: nella fiction di Soavi non c’è nulla di positivo, di salvabile, nulla che giustifichi la presenza in sala. La cifra formale è la sciatteria: non c’è alcuno sforzo per dare al racconto una parvenza di logica; non ci si preoccupa di integrare i due filoni narrativi di cui la vicenda si compone (i tre fratelli da un lato e il rapporto madre/figlia dall‘altro) e si ha spesso la netta sensazione di star vedendo due film diversi; non c’è giustificazione interna alla dislocazione temporale anni ‘40-‘60, alla base dell’atto del raccontare (è Placido che racconta come andarono i fatti alla figlia della Bobulova, cresciuta), visto che la ragazza pare sapere già tutto (la scelta dà però motivo di altre scene madri di disperazione urlata); non c’è, nella ricostruzione degli anni ‘60, un qualsiasi indice temporale - costumi, scenografie - che ci permetta di capire che non siamo nel 2008; e il lato “giallo” della vicenda è risolto, e nella maniera più prevedibile, dopo circa un’ora e per il resto del tempo non è più ripreso. Il regista fa poi largo uso di tutte le strategie retoriche che conosce per moltiplicare fino all’inverosimile l’aspetto patico, non risparmiandoci niente: si vedano di omicidi gratuiti, privi cioè di senso nello sviluppo narrativo (quello dei genitori), durante i quali la cinepresa indugia a lungo sui fiotti di sangue con intenti tutt’altro che pulp; si vedano gli spudorati (e questo Festival dà abbondante materia di riflessione sulla categoria del pudore nel cinema) ralenti in tutte le scene già di per sé troppo forti (un esempio: dopo il bombardamento di San Lorenzo la cinepresa riprende le macerie fumose delle case e, all’improvviso, un cavallo, per di più bianco, attraversa al rallentatore la scena; perché?); si vedano le musiche di chitarra, che dovrebbero essere autonomi significanti di “dolcezza” e “malinconia”, ma che, invece, risultano solo patetiche, essendo lontana anni luce la dimensione sottile e delicata del sentimento; si vedano i dialoghi, un susseguirsi di proclami altisonanti, sentenze storiche e frasi a effetto, che sono indice dell’assente principale del Sangue dei vinti: l’uomo.
Non c’è personaggio che non sembri un fantoccio piazzato lì a sbraitare il proprio credo ideologico, sia questo politico o morale, a esplicitare la propria “funzione“ narrativa: la simbologia che dovrebbe associare la guerra di liberazione partigiana al contrasto tra fratelli è solo un’impostazione di superficie, un artificio retorico: quei tre non sono davvero fratelli, perché non sono uomini, autonomi e vivi nell’universo diegetico; non c’è in loro nessuno spessore, profondità, non c’è mai “problema”; tutto, anche l’agnosticismo del personaggio di Placido, è già dato a priori in base a una tesi che si vuole dimostrare e che azzera ogni visione critica del rapporto con la Storia. È assente il “dialogo” (nel senso bachtiniano), come testimonia la staticità dei personaggi: persino un’esperienza così dolorosa come la guerra civile non li fa evolvere, tutti e tre restano quello che erano. Il sangue dei vinti è il trionfo del cattivo gusto ed è l’applauso, e non la critica, come si è cercato di far passare, che può avere solo motivi ideologici. In conclusione una parola gli attori la meritano: anche se persino Mastroianni avrebbe recitato male quei dialoghi, il livello medio è così scadente da far sembrare la Bobulova una diva. Se è questo il futuro della fiction italiana (non oso dire del cinema: significherebbe essere apocalittici) Padre Pio, aiutaci tu.
