TRAMA
Bologna 1938. Michele Casali si trova a vivere una situazione disperata: Giovanna, sua figlia unica ancora adolescente, ha ucciso per gelosia la sua compagna di banco e migliore amica. Evitando il carcere, la ragazza viene ritenuta non sana di mente e perciò rinchiusa in un ospedale psichiatrico a Reggio Emilia dove rimarrà fino all’età di 24 anni (1945). Durante questo periodo di quasi totale isolamento, l’unica persona che si occupa di lei è il padre che si trasferisce appositamente a Reggio da Bologna, dove insegnava arte al liceo Galvani.
RECENSIONI
Di Pupi Avati si dice che gira sempre lo stesso film a causa della ricorrente ambientazione in una Bologna d'altri tempi (cosa peraltro non vera data la sua frequentazione di generi altri, come l'horror). Piuttosto non sempre la sua visione convince. Ogni tanto inciampa nel bozzetto o cade nel patetico. Questa volta, però, come già nel recente La seconda notte di nozze, il tuffo nel passato risulta persuasivo. Ciò che più colpisce del soggetto è la voglia di Avati di approfondire i retroscena di un fatto di cronaca nera dopo che i riflettori sulla tetra vicenda si sono spenti. Come continua la quotidianità di chi è costretto a sopportare il peso di un crimine che grava sulla propria famiglia? In quale stato d'animo vive chi si è macchiato di colpe definitive? Con Il papà di Giovanna Pupi Avati offre la sua risposta incrociando l'attrazione per il lato oscuro, da sempre nelle sue corde, con l'amore per la Bologna del tempo che fu e questa volta la televisione resta lontana e la forza del racconto riesce a coinvolgere. Il merito deriva dalla capacità di Avati di calare effettivamente lo spettatore nella Bologna del 1938, grazie a una sceneggiatura in grado di valorizzare la coralità del racconto senza perdere di vista la centralità della figura di Giovanna e il suo rapporto con il padre. A contribuire alla riuscita del film anche la cura scenografica, superiore alla media dei suoi ultimi film (per cui si è più volte scomodato l'aggettivo "sciatto") e la fotografia anticata di Pasquale Rachini. Il resto lo fa la direzione degli attori, ma con alcuni distinguo: Silvio Orlando si conferma interprete sensibile per una parte che una ventina d'anni fa sarebbe andata a Carlo Delle Piane ed è stato meritatamente premiato con la Coppa Volpi come Migliore Attore al Festival di Venezia; Francesca Neri ha presenza scenica e sceglie i giusti toni; la lanciatissima Alba Rohrwacher rischia di essere dominata dal personaggio ma ha le phisique du role; Serena Grandi è una perfetta "sdaura" bolognese ed Ezio Greggio, per la prima volta in un ruolo drammatico, è una piacevole scoperta. Da filodrammatica, invece, le grida sguaiate e gli sguardi alteri di Manuela Morabito, improbabile madre della vittima. A rovinare la sospensione di incredulità, più di alcuni dettagli non proprio verosimili (i matti costantemente sopra le righe nel manicomio di Reggio Emilia) e di scelte un po' scontate (ancora un parto sotto le bombe a dimostrare la forza della vita), è soprattutto il troppo silicone che circola sulle labbra di più di una delle interpreti femminili, che catapulta, di colpo, nella gelida contemporaneità.
