Giallo, Recensione

IL SIERO DELLA VANITÀ

TRAMA

Qualcuno sta sequestrando noti personaggi televisivi in rapida successione… quanto costa il siero della vanità?

RECENSIONI

Come un Durenmatt dietro la macchina da presa Alex Infascelli lascia crepitare il suo film a fuoco lento, fino a bruciarne tutti gli strati intermedi per approdare all’allucinante sequenza conclusiva: il giallo scoppia, il siero conclude il suo effetto, la realtà si infila (fin troppo) dentro i nostri occhi. Nonostante le numerose dichiarazioni d’intenti disseminate per la pellicola soltanto all’ultimo si capisce dove IL SIERO DELLA VANITA’ vuole andare a parare: l’iperbole è il suo cuore pulsante, la parodia senza zucchero lo sfondo sul quale si staglia. Mentre i titoli di testa si succedono su uno schermo televisivo denso di immagini disturbanti e sgranate, la prima frazione sembra adagiarsi sullo stereotipo del genere: l’investigatore colpito duro nel suo passato, il misterioso criminale che tiene in scacco la polizia e la successione dei suoi misfatti come in un fuoco di fila. Tutto ciò si osserva con spirito di prevedibilità, sottilmente svogliati perché drogati da troppo cinema alimentare (l’ultimo Argento). Qualcosa per la verità si lascia intuire: la mano registica non si preoccupa di evitare “riferimenti a fatti e persone…” ma spietatamente tratteggia la macchietta dell’odierno talk show (Costanzo e Vespa, oppure fate voi), punzecchia la moda di farsi i calciatori, regala la preziosa istantanea del tossicodipendente televisivo (ed il suo sterminato archivio). Equilibrata fusione tra regia e sceneggiatura, che si piegano l’una al servizio dell’altra: la camera traballante segue il percorso dell’investigatrice zoppa, quella sgranata deforma volto e parlata della celebrità sportiva, d’altronde quando si osserva troppo un oggetto questo smarrisce i propri contorni. Eppoi la fine, verso la quale tutto il film è proteso: il mostro riacquista letteralmente forma – occhi: riflettori – corpo: telecamere – cuore: conduttore - voce: la sigla- e spazza via tutto e tutti. Una tragedia dunque, ellenicamente parlando, dove aleggia sottoterra la mano del Fato: il media televisivo non è semplicemente un diabolico ingranaggio degli uomini bensì il Male assoluto, che si insinua in tanti cervelli deformandoli ognuno a modo suo (dall’assassino alla presentatrice passando per il poliziotto). Inutile avvolgere la scabra fisicità di Margherita Buy in un calore famigliare; l’immagine successiva inquadra un corpo morto che si dissolve ma è pronto a risorgere in diretta ed esclusiva. Tutto nell’abbraccio dell’occhio meccanico (la m.d.p. che trasfigura in telecamera), ineludibile moira che trasforma il soggetto in prodotto. IL SIERO è un film giovane, imperfetto, spesso modestamente recitato ma conquista con il suo coraggio di osare, l’ansia della rappresentazione, il ghigno amaro come un limone (quello sulla locandina è sangue o rossetto?), la sua masquerade interiore che poi è quella della televisione stessa. Disturbante in quanto lo spettatore vi ritrova sé stesso: il tango delle dita indurrà forse a cambiare canale con la solita, conosciuta svogliatezza. La nostra personale addiction, per cui nessun siero può diventare antidoto.