TRAMA
I fatti di St. Peter’s Field a Manchester il 16 agosto 1819: le forze dell’ordine britanniche attaccano una manifestazione pacifica del popolo, contro la povertà e per la riforma della rappresentanza parlamentare.
RECENSIONI
PETERLOO CONTRO TRANQUILLITY
Una W che diventa P: una torsione semantica che passa da vittoria in guerra a strage di Stato. Un’ingiustizia, una protesta e un massacro. Mike Leigh prende una costola di Topsy-Turvy per inscenare i fatti di St. Peter’s Field: è lo stesso Ottocento, ma qui asciugato di ogni ironia, slittato dal “sogno” dello spettacolo alla realtà delle classi popolari. Una scena di raccordo di quel film, l’estrazione primitiva di un dente, diviene la sostanza di questo: povertà estrema, ambienti caliginosi, volti anneriti. La luminosità tardo-romantica di Turner si spegne negli interni vuoti e scarni, seppure ugualmente pittorici: l’indigenza non viene accentuata né compatita, è un dato di fatto. Che inizia con lo shock di un giovane sul campo di battaglia, reduce di Waterloo e futura vittima di Peterloo, unica concessione drammatica a uso di chi guarda, per orientare lo spettatore con la sua circolarità (all’inizio la salvezza, alla fine il funerale): allo scemo di guerra Leigh riserva un primo piano etico, tipico del suo cinema, la stessa inquadratura che trent’anni fa incorniciava Mrs. Bender in Belle speranze, lo zoom su un volto attonito che guarda il mondo intorno e non lo capisce. Il regista le osserva pudicamente, queste figure struggenti, le “estrae” dalla storia e mette in rilevanza assegnando loro uno spazio narrativo che significa dignità.
Ma Joseph è il solo che possiamo seguire, una risposta minima all’esigenza mentale di accompagnare un personaggio: il resto di Peterloo è racconto magmatico e frastagliato, che non cerca l’empatia ma la complessità (stare con il popolo è solo la premessa), si disgrega in rivoli e va da una parte all’altra, dai potenti ai deboli e nel mezzo, tenuto insieme da fili sottili come il canto popolare di una donna, The Song of the Poor, coro politico che accompagna il disegno di una condizione. Niente di strano per Mike Leigh, che scrive e dirige la coralità delle psicologie con attenzione maniacale al dettaglio, alla sfumatura, alla battuta, e negli ultimi anni consegna ritratti di esattezza implacabile (Another Year, in zona capolavoro) ponendosi sempre più lontano dall’equivoco del realismo. Siamo nella ricostruzione pura: frutto di fonti e documenti, del lungo lavoro di scrittura, delle consuete prove degli attori fino all’immedesimazione. Leigh mette in scena un racconto del 1819, una versione narrativa fatta di scelte precise: come raffigurare l’iniquità in un tribunale che impartisce pene kafkiane per piccoli reati; come mostrare un sovrano ridicolo, un freak a metà tra una corte di Lanthimos e il Luigi XIV morente di Albert Serra, vezzeggiato da un dolcetto («Un petit bonbon») e rassicurato sull’ipocrita quiete nel regno.
Eppure Peterloo non è un film frontale sull’oggi: non parla della Brexit né dei nuovi populismi, specifica Leigh, cineasta che da sempre tratta la politica tenendosi a lato, in modo non diretto, facendo emergere una posizione dalle virgole dei suoi racconti (Brenda Blethyn in Segreti e bugie ripeteva: «Lavoro in fabbrica», ma quella fabbrica non si vede mai). Un film sul passato non deve per forza parlare del presente, dice il regista, e ha ragione: parlare no, riguardare sì. E Peterloo ci riguarda perché è un film sul linguaggio. Lo scontro che inscena oppone due retoriche avverse: c’è la lingua dei potenti, che chiama un’insurrezione malattia («There is a sick»), e quella dei poveri che iniziano a sviluppare gradualmente un altro discorso, nelle cantine a lume di candela, a parlare di protesta («Il problema non è se gli uomini hanno paura del buio, ma se hanno paura della luce»). Ecco però una differenza: come nota duecento anni dopo l’operaio Lindon in En guerre, «i ricchi non sono sempre d’accordo, ma loro non si dividono mai», così avviene anche in questa guerra dove la massa produce distinguo, perché frequenta la democrazia per la prima volta, e si scinde tra rivoluzionari e riformisti, pacifisti e incendiari. Giovani e anziani. Uomini e donne. Nei volti tutti magnifici del cinema di Leigh, motivo a sé per vedere i suoi film (e unico paragone possibile con Ken Loach), le mogli sostengono la protesta “dei mariti” ma non sanno ancora compiere un passo per sé.
Così nelle crepe delle differenze emerge una terza retorica, frutto di necessità fittizia, di un sentito dire: quella del “grande oratore”. Il popolo si pensa limitato, si ritiene insufficiente a se stesso e si rivolge a Henry Hunt, parlatore progressista, leader “di sinistra” da palco: lui è l’illusione della parola, l’utopia perdente che un discorso alto possa cambiare le cose. Il dramma di un divario culturale, quello tra il popolo e chi “parla bene”. L’egotico Hunt mostra subito la profonda distanza dalla gente comune disprezzando la permanenza a Manchester; poi lo vediamo perfino posare per un ritratto, in un narcisismo elevato al cubo, che si consuma nell’ingenua estraneità dell’intorno. Culmine dell’auto-rappresentazione di sé, il dipinto di Hunt è come una foto modificata postata su facebook, porta lo stesso patetico messaggio: sono il migliore secondo me.
L’attenzione di Leigh al linguaggio è dunque una questione politica: i lunghi dibattiti nelle assemblee, che vanno gradualmente a proclamare la manifestazione, sono un gesto di resistenza al contemporaneo e insieme una dichiarazione di essenza. Contro la iper-velocità attuale, contro la riduzione del pensiero, qui c’è la messinscena della formazione graduale di una coscienza, che è sempre lenta e faticosa, fatta di opinioni e contrari, frasi e silenzi, slanci e frenate, rumori e applausi. Voci acute e altre meno. Insomma la democrazia. Quella che percorre tanti film parlati dei nostri anni, in cui i personaggi dicono i loro pensieri e si confrontano, dai ritrovi eversivi de Il giovane Karl Marx al consiglio di fabbrica in 7 Minuti; quella forza che sostanzia implicitamente tutto il lavoro di Frederick Wiseman. Peterloo non è molto lontano da Ex Libris, film che intendeva la democrazia come accesso alla cultura, e in generale da un cinema che sceglie la lentezza come chiave necessaria per costruire un sapere.
Non tutto può essere veloce, immediato, nominale. Mike Leigh lo sa bene: girare Peterloo oggi, coi suoi 154 minuti, è il contrario del tweet e della ricerca su google, non c’è alcuna fretta, serve pazienza, bisogna aspettare e guardare. Per questo non ha senso vederlo su uno schermo piccolo: ci riporta a un tempo, analogico e passato, in cui il cinema presumeva il verbo andare, recarsi in una sala senza scorciatoie («Non mi piace per niente che un film sia visto attraverso uno smartphone»). È un’opera profondamente contemporanea proprio perché quel contemporaneo lo contesta: in tal senso la protesta di St. Peter’s Field è anche una rivolta di linguaggio. Nella strage finale infatti la folla lontana non può vedere l’oratore, ovvero non mette a fuoco il discorso: le parole non si sentono, ormai è troppo grande la distanza e non resta che la tragica confusione della battaglia, Peterloo uguale Waterloo, due scontri nella stessa guerra agli ultimi. I cronisti tra le rovine decidono di pubblicare i dettagli e nel carrello che li segue coniano il termine Peterloo. Subito dopo la moglie del principe reggente ripete soavemente la parola Tranquillity. Il conflitto è tutto, ancora, nella lingua.
Quello di Mike Leigh è un film chiaro, su una strage terribile ma simile ad altre, che proprio nelle pieghe della semplicità apparente ripone questioni enormi: come bisogna vivere? Cosa siamo disposti ad accettare e quando ribellarsi? Cos’è la democrazia, quale il modo per esercitarla? Perché i potenti opprimono i più deboli, finirà? Leigh non scioglie i dubbi ma li inscena, non risolve lo scontro ma lo propone, ne parla: Peterloo contro Tranquillity, in un vecchio/nuovo Ottocento nel quale possiamo sempre scivolare.
