TRAMA
Il film si apre con l’omicidio di Salvatore Giuliano, bandito della siciliana Montelepre che si unì al movimento separatista dell’isola, mentre continuava a commettere i suoi delitti.
RECENSIONI
Ottenne un Nastro d’Argento quest’opera seminale per la cinematografia mondiale, ammirevole e innovativa per il taglio e il linguaggio cronachistico e a flashback. Francesco Rosi, fra i primi, mischia e confonde le carte per far sembrare la finzione un documentario (due soli attori professionisti) e inventa il film-inchiesta di impegno civile italiano. Tutto ciò si traduce nel notevole verismo di certe sequenze, in una ricostruzione storica dettagliata degli ambienti (è stato girato nei luoghi originali e vanta fatti rinvenibili solo in documenti ufficiali), nell’autenticità dei volti, delle espressioni, delle situazioni. Indimenticabile, soprattutto, la scena della ribellione delle donne urlanti al paese di Giuliano. Anche ideologicamente l’opera sa essere riformista: la figura di Giuliano (Pietro Cammarata, professione: tranviere) resta volutamente ambigua, anzi impossibile da decifrare nel momento in cui gli si ritaglia uno status mitico colmo di interrogativi (bandito, eroe, vittima, carnefice?). Nel momento in cui, comunque, per il regista il personaggio è un mezzo per descrivere il contesto, finisce per stare ai margini del contesto stesso (il vero protagonista è Gaspare Pisciotta): con l’estetica stessa, cioè, Rosi lancia un messaggio politico. Il cinema di Rosi raramente ama raccontare senza partecipare, ma questa è l’opera dove è rimasto più neutrale, sebbene non manchi di scoccare frecce avvelenate in altri ambiti, denunciando la collusione mafia-politica-banditismo-forze dell’ordine (a tal punto che venne istituita la Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla Mafia). Sempre volutamente, il film non cerca il coinvolgimento viscerale, nemmeno con la strage di Portella della Ginestra, filmata in modo asciutto e montata evitando sottolineature drammatiche.
