TRAMA
Achille Tarallo è un autista di autobus, marito e padre, ma sogna una vita diversa e di diventare famoso come Fred Bongusto. Insieme al suo amico Cafè canta, con scarso talento, ai matrimoni che gli procura il sedicente impresario Pennabic, proponendo un repertorio detto “Tamarro Italiano”. Ma un giorno per Achille arriva l’imperdibile occasione per evadere e cambiare la sua vita…
RECENSIONI
LA VITAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
A Napoli la commedia, come la tragedia, è nelle cose. Il teatro, ce lo hanno insegnato le Cantate di Eduardo, appartiene allo spirito partenopeo: il palcoscenico di De Filippo lo restituiva integro, immacolato; non calcava un tono: era lo specchio di una situazione. Capuano di questa teatralità innata si è sempre fatto interprete: in Luna rossa, usava l’Orestea di Eschilo per raccontare di una famiglia di camorristi; in Bagnoli Jungle, documentario del 2015, riusciva a passare dal registro brillante (il vecchio pensionato e la sua narrazione delle gesta di Maradona, come un poema satirico e mitologico) a quello drammatico (la disoccupazione, la delinquenza, l’arrabattarsi quotidiano), limitandosi a portare sullo schermo stralci di umanità, storie vere che parlavano da sole (in dialetto, ovviamente).
Achille Tarallo segue le stesse orme: la realtà è lì per essere raccolta, inquadrata e riproposta; da subito, dunque, la colonna sonora è intasata di grida, strilli, schiamazzi, dal fracasso delle strade, dal rumore, dal pandemonio che è la città. In questo frastuono le voci dei protagonisti stentano a imporsi, sono suoni tra i tanti, come se le storie che vediamo vagamente delinearsi non fossero altro che accenni tra le innumerevoli altre possibili (il drone che inquadra dall’alto il quartiere popolare in cui tante esistenze si intrecciano). Non c’è alcun tentativo di fare ordine, di delineare dei personaggi a tutto tondo, di consentire allo spettatore di seguire una linea narrativa. Né c’è la volontà di titillarlo con qualche astuzia o espediente brillante, anzi, l’impianto è disarmonico, l’immagine è di un grezzo disturbante: così Achille che canticchia in pullman l’ultima canzone composta dal suo gruppo fa ridere perché fa piangere, perché è triste come la sua sterile speranza di avere successo («Vorrei cambiare tutta la mia vita/ e dedicare questo brano a te/ ma non mi caghi»). Ma in questa malinconia, allora, la commedia dov’è? È nelle cose, appunto. Come la tragedia. E il trash solo nell’occhio di chi guarda. Su questo sostrato realistico («la vitaaaaaaaaaaa»), mai edulcorato, tutt’al più smaltato (la fotografia che fa esplodere i colori), si fonda questo film suicidale, respingente, già incompreso, contro ogni maniera. In cui la scena di sesso (di un visionario casareccio) ha una nudità frontale che è l’opposto della sensualità e dell’ammicco. In cui si parla in dialetto, a costo di essere incomprensibili. In opposizione al codice uniforme di una lingua recitativa che nei fatti è inesistente (ancora De Filippo): persino l’ascensore si rifiuta di partire di fronte all’ostinazione di Achille di usare l’italiano. E già questo ragionare sulla lingua, all’interno del film, è uno slittare nell’autoriflessione che apre squarci. Sì, perché pian piano il regista scompagina i livelli rappresentativi: gradualmente porta il discorso al parossismo e, inesorabile, lo conduce ai confini della surrealtà. Fino a sconfinare - in un finale tra i più spiazzanti dell’annata cinematografica - nell’assurdo. La macchina da presa, insomma, non si limita a farsi specchio riflettente di una situazione, come in Bagnoli Jungle. Fa un passo in avanti, ribalta il dispositivo, lo guarda dall’altra parte.
Mentre assistevo al lento disfacimento della trama realistica mi sono sorpreso a chiedermi quanta distanza ci fosse tra il sogno del cantante sfigato (Biagio Izzo) - che incarna un Fred Bongusto in bianco e nero della televisione anni 60 - e il sogno di Monica Bellucci che Gordon Cole compie in Twin Peaks. È una provocazione, ma mica tanto: non è anche il sogno (di gloria) di Tarallo il passaggio che collega dichiaratamente la finzione del film a una realtà storica? Una sorta di svelamento di una (già molto precaria) messa in scena? Se in Achille Tarallo c’è disordine e non si rinviene un unico senso riconoscibile, se queste situazioni intrecciate e confuse sono le strade perdute della narrazione, se Napoli continua a essere una jungle inestricabile in cui il potenziale narratore si muove, indeciso e a tentoni, la svolta metadiscorsiva, la fuga nell’incongruenza gridata (cantata) non ribadisce l’inesistenza di sentieri tracciati, la labilità del confine tra messa in scena e vita? «La vitaaaaaa/ molto spesso è una prigione/ basta un poco di evasione pe’ te fa’ turn’a campàaaa». L’evasione: Lynch la chiamerebbe fuga psicogena, ma il risultato è lo stesso («È plausibile?»).
Piacerà poco questo film, ma mi sento di coccolarlo anche perché, oltre a essere un atto di coraggio commovente, è orgogliosamente fuori dai tempi: per il sano senso di identità che promana da queste immagini, per la sfrontata autoreferenzialità, perché individua un sistema di valori cristallizzato e un senso della comunità, del vivere con gli altri e insieme agli altri, che è vicino al popolo, ma lontano mille miglia dall’ottuso spirito populista che domina i nostri tristi, tristissimi tempi.
