TRAMA
B-Rabbit vive con la madre e la sorella piccola in una roulotte in un quartiere povero e degradato alla periferia di Detroit, al di qua dell’ 8 mile, la strada che taglia in due la città separando i quartieri ricchi da quelli poveri. Tra un lavoro saltuario e l’altro cerca di emergere nella scena hip hop cittadina, combattuto tra un contratto discografico che non arriva e i contest di free-style in un locale notturno.
RECENSIONI
In piena bufera (tanto per rinfrescarci la memoria, quando Eminem veniva da più parti tacciato di razzismo, omofobia e istigazione alla violenza) il sempre illuminato Paolo Ferrari in sede di recensione di “The Marshall Mathers LP” diede una della poche interpretazioni lucide del disco all’ora fresco di stampa. In effetti bastavano titolo e copertina per capirci qualcosa: un ragazzino biondo (Eminem) rincantucciato in un angolo di una strada buia, solo, e un disco che prende il nome direttamente dalla carta d’identità del soggetto in questione, cosa più unica che rara in materia di hip hop. Viene in mente una delle ultime (e più esaltanti) scene del film, in cui nella sfida finale B-Rabbitt raggiunge il climax della sua prestazione sputtanando definitivamente l’avversario con un “your name is Clarence” che suona come un insulto per qualcuno che probabilmente si faceva chiamare “Mummyfucka P” o “Very Bastard Killa G” o “Smith&Wesson MC”, o magari “P.Diddy” (nuovo ridicolo nome del più odioso dei rapper d’oltreoceano, tra l’altro futuro candidato alla Casa Bianca). Insomma “The Marshall Mathers LP” fu senz’altro il disco della consacrazione, ma fu prima di tutto un disco clamorosamente personale e intimo, diretto come pochi, che ha lanciato alla conquista del mondo un talentuosissimo ragazzo bianco di Detroit tanto incazzato quanto fragile, che con tutte le contraddizioni, le ambiguità e i fraintendimenti del caso è stata una delle cose più sincere capitate allo show-biz statunitense negli ultimi anni. Dopo la parentesi D12 è venuto il tempo dell’autocelebrazione, e da un disco che s’intitola con il suo nome “da civile” passiamo a un altro che si chiama “The Eminem show”, con tanto di sipario e tendaggi rossi in copertina, il disco di una celebrità che volente o nolente (ma supponiamo volente) ha marchiato a fuoco l’immaginario culturale di un paio di generazioni. “8 mile” si inserisce in questo contesto, è il precoce film biografico di un personaggio che ha saputo costruirsi pericolosamente in bilico tra la sfera privata e quella pubblica. A dirla tutta ci sono tutti i presupposti per il volume 2, visto che la storia di B-Rabbit inizia e finisce tra i vicoli bui di Detroit, quando la fama e la celebrità sono ancora un miraggio suggerito soltanto nel finale dalle note dell’hit planetario che ha lanciato la colonna sonora del film ai vertici di tutte le classifiche.
Curtis Hanson è un regista camaleontico in grado di mettersi al servizio di cose più grandi di lui, come portare sullo schermo uno dei romanzi più complessi e imponenti della storia della letteratura noir (“L.A. Confidential). “8 mile” invece è inevitabilmente il film disu Eminem, in cui Eminem non può limitarsi a recitare una parte, perché una popstar del suo calibro trascina inevitabilmente con se una significanza altra, data da quello che è e rappresenta agli occhi della gente, qualcosa che passa per la fisionomia del suo volto, per la sua voce, qualcosa che necessariamente filtra e stordisce il personaggio che interpreta nel film. Visto e considerato tutto questo Hanson sceglie di fare di “8 mile” un film su individuo che si muove all’interno di una città, elevando Detroit (vera e propria discarica a cielo aperto del sogno americano) al ruolo di coprotagonista. La città dei motori, ormai disastrata sede dell’impero General Motors, ha sempre avuto un ruolo di primissimo piano nella storia del suono della seconda metà del XX secolo. Oltre ad aver prestato il nome alla casa discografica che ha fatto la storia della black music ( “Motown”, appunto) il Michigan è stata la culla della furia del Motor City Rock’n’Roll di MC5, Sonic’s Rendez-vous band, Stooges, Grand Funk Railroad. Una città sempre in fiamme, incendiata dalla musica e dalla gente che la fa, e non a caso una delle scene più suggestive del film è quella dell’incendio di una casa abbandonata. L’altro grande protagonista del film è ovviamente l’hip hop, valorizzato dal primo e unico caso nella storia del cinema italiano di doppiaggio intelligente, essendo tutte le parti cantate e quelle relative ai contest di freestyle rimaste in lingua originale. Una scelta francamente necessaria, che permette di apprezzare le scene salienti del film, quelle in cui vediamo Eminem all’opera in quello che sa fare meglio (anche se recitare non gli riesce affatto male). Dovendo eleggere una scena chiave del film sceglieremmo probabilmente quella in cui gli operai in pausa improvvisano scherzosi brani hip hop quasi alla maniera di canti spirituals.