Biografico, Drammatico, Recensione

12 ANNI SCHIAVO

Titolo Originale12 Years a Slave
NazioneU.S.A., U.K.
Anno Produzione2013
Durata134'
Sceneggiatura
Trattodall'autobiografia di Solomon Northup
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

1841. Storia vera di Solomon Northup, libero cittadino della contea di Saratoga (Stato di New York) che, ingannato, viene costretto alla schiavitù in Lousiana. Per 12, lunghissimi, anni.

RECENSIONI

Adattando la vera storia di Solomon Northup, raccontata nella sua autobiografia 12 Years a Slave, Steve McQueen affronta lo schiavismo scegliendo come protagonista un uomo borghese, un nero del Nord. E se ne approssima la biografia, è per farlo prossimo a noi: perché quel che gli interessa è raccontare l'esperienza progressiva della disumanizzazione, l'agonia del degrado, la perdita graduale della dignità. Non l'accomodante televisione della miseria, lo spettacolo commiserante, catartico e accomodante, del dolore di corpi distanti anche ma non solo storicamente. Ha ragione Roberto Silvestri quando scrive (qui) che il Solomon di McQueen è «un superbo americano adulto, allibito perché non lo considerano tale. E gli altri sono africani, vecchi donne e uomini non importa, tutti uguali». Ma McQueen, che è artista contemporaneo istituzionalizzato e che dunque istituzionalmente pensa all'arte come lavoro sul contesto, considera e comprende nel suo protagonista lo spettatore, proponendo una figura socioeconomicamente prossima (anche solo come modello di benessere a cui tendere) agli occhi di guarda. Solomon si sente differente. Lontano. Come noi. E la sua via crucis è anche, sotto le angherie della prassi schiavista, quella della messa in crisi di questa presunzione, quella dell'attentato a questo distacco culturale. L'invito, seppure fallimentare, alla costruzione di una coscienza sovraindividuale. Nell'analessi ambientata in merceria Solomon guarda - da semplice spettatore - un bianco padrone del Sud reclamare il suo schiavo nero. E questo limitarsi a guardare, questo non vedere l'ingiustizia, questo non agire, questo accecamento selettivo della morale in nome del rituale sociale, si chiama ideologia. Che McQueen coglie e mette continuamente alla prova. Anche quando si tratta di affrontare la stretta visione del mondo di Solomon. Si pensi solo a due allontanamenti speculari a quello descritto qui sopra, due scene similari in cui il protagonista è portato a sperimentare il ruolo degli altri, altre possibilità, anche se il risultato rimane lo stesso: 1) quando Solomon vorrebbe che Clemens, compagno di viaggio all'inferno reclamato dal proprio padrone, si voltasse, e incrociasse il suo sguardo bisognoso d'aiuto; o 2) quando sul finale Solomon si volta verso Patsy e, comunque, sul carro atteso, se ne va, senza aggiungere una parola, senza aggiungere un gesto. Perché quel gesto, «date le circostanze» non è previsto. La legge trionfa sulla giustizia. Il momento in cui Solomon, a fatica, arranca in se stesso per fare parte di un noi (durante il rito del funerale, quando lo vediamo sforzarsi di cantare Roll Jordan Roll), è dimenticato. Lo schiavismo implica l'individualismo, ne è l'indiretta conseguenza. Che si tratti di vivere o di sopravvivere.

Non è un eroe positivo, Solomon. È solo una guida negli abissi, la figura vicaria che ci accompagna nei luoghi in cui l’aberrazione prende forma. Performadosi sui corpi, certo. E deformando, soprattutto, la visione. 12 anni schiavo è un film fatto di quadri giustapposti, di scene in cui s’informa l’ideologia dello schiavismo. Il processo deumanizzante, la negazione dell’identità (si veda la centralità del nome proprio: negato, sostituito, infine ritrovato nel figlio, ritrovata la libertà), la rimozione della propria storia (rivendicare se stessi facendo valere la propria esperienza e i propri talenti è dannoso: se un nero sa suonare, è solo per portare allegria ai bianchi, «sei un ingegnere o un negro?», «sei un negro di talento, credo non ne verrà fuori nulla di buono»), la riduzione dell’uomo a merce («William Ford ha un’ipoteca su Platt. Se lo impiccate perderà il suo debito»), le forme in cui s’esplicita il fascismo subdolo della tolleranza (lo schiavo viene premiato con la gratitudine se rimane inoffensivo, se non turba lo sguardo del padrone, se non pretende di essere un soggetto: si pensi al personaggio di Patsy, o al «non posso sopportare questa depressione» alla base dell’allontanamento di Eliza o alle parole di Ford di fronte alla richiesta d’aiuto di Solomon: «cosa vuoi da me? Io ti sto salvando la vita»). Il velo che ricopre le cose. «Le date circostanze» che legittimano l’abuso dei corpi. E offendono, sfondano lo sguardo: si pensi all’oppressione dell’ambiente nella camminata en plein air di Solomon verso il negozio, si pensi alla scena della sua impiccagione, agli schiavi che continuano a lavorare, ai bambini che giocano dietro il suo corpo sofferente. Il discorso tra Solomon ed Eliza (lui che s’è appropriato, per sopravvivere, della prospettiva del padrone, lei che continua a reclamare il suo dolore, la politicità della sua disperazione) è solo la didascalia in cui s’esplicita un discorso che sa farsi audiovisione: lontano dal dramma lirico di Spielberg, così come dalla mascherata eversiva di Tarantino, 12 anni schiavo è un forum in cui si testimoniano, semplicemente, le forme con cui si manifestano lo schiavismo e il suo lavoro sulla percezione del mondo. McQueen considera il corpo (quello del protagonista, ma anche e soprattutto quello dello spettatore) come territorio politico, cercando il di più sensoriale, il sentire più forte, la fisicità dell’esperienza al di fuori dal basso continuo anestetizzante del realismo, della realità nostra contemporanea, del sadico vouyerismo distratto e dell’immedesimazione usa-consola-e-getta, astraendo ed esaltando la violenza in una messa in scena arty, compiaciuta di volumi, toni e geometrie, alienata nella teatralità dei quadri, nel coro progressista ed engagé dei divi liberal che attraversano il film, come fossero figure tra il testimonial pubblicitario e il perpetuatore di una tradizione orale. Non la mimesi realista, il commovente viaggio dell’eroe negli occhi dell’eroe, ma lo storytelling stilizzato nella società dello spettacolo (è l’Oscar per il miglior film americano dell’anno, è Hollywood, è industria: e su questo, con questo McQueen lavora), la performance elementare di body art, la fredda sintesi audiovisiva di un processo ideologico. Non solo nei carnefici, ma anche nelle vittime.

Questo è 12 anni schiavo, opera eccentrica, integrata ma fraintesa, film che s’inserisce nel ricorrere del tema dello schiavismo nel contemporaneo [1] : perché da Lincoln a Django Unchained, da The Master a The Butler, fino a C’era una volta a New York la schiavitù attraversa il cinema d’oggi, non solo perché si confronta con un periodo storico, ma perché è un vero e proprio sentimento del contemporaneo. Una questione socioeconomica che si fa storia di fantasmi personali. E infine teatro della sessualità (nel ritratto del sadomasochismo di The Incomplete di Soldat, per esempio, sino al vero capolavoro ultimo sulla società contemporanea, Les salauds di Claire Denis, dove la degradazione dello schiavo finisce per provocare non solo l’ovvio piacere del padrone, ma anche quello dello schiavo stesso). Non è un caso che 12 anni schiavo segua Shame, nella breve filmografia di McQueen: ne è il lato complementare. Qui l’umiliazione, l’abisso osceno del corpo martoriato, la violenza subita dello schiavo, là il vuoto sentire del perpetratore, l’umore atarassico e il desiderio incessante del godimento, la voglia infinita della classe dominante di aumentare il proprio piacere, il bisogno della concretezza del sesso a compensare lo svuotamento della morale, l’annullamento della comprensione dell’altro (ci torneremo con Nymphomaniac, radicalizzazione del Giovane e bella di Ozon): McQueen sa mettere in scena lo Zeitgeist.

[1] Nota aggiunta: ne parlo su Film Tv n° 22/2014, per chi volesse approfondire.